Uno dei racconti più virtuosistici per il contrasto fra l’enorme densità concettuale e l’essenzialità della narrazione, pubblicato nella raccolta "Finzioni".
Il grande autore argentino Jorge Luis Borges ne "Il giardino dei sentieri che si biforcano" (1941) sembra voler sfidare le possibilità del racconto, cercando di concentrare il massimo contenuto nel minimo spazio narrativo.
La vicenda è una costruzione a scatole cinesi che inizia come un racconto di spionaggio (un agente segreto al servizio dei tedeschi durante la prima guerra mondiale cerca di sfuggire alla cattura, cercando nel contempo di passare un’informazione vitale al suo comando), ma si sviluppa come un’indagine sulla leggendaria impresa del saggio cinese Ts’ui Pen, creatore de Il giardino dei sentieri che si biforcano, che però non è un vero labirinto, ma una sorta di romanzo "totale" che simula tutte le infinite e quindi "labirintiche" possibilità narrative.
A questo punto il testo di Borges, che avendo lo stesso titolo si rispecchia nel romanzo di Ts’ui Pen, non solo diventa un racconto filosofico sulla natura dell’universo, ma attraverso la trama poliziesca, che riprende il sopravvento nel finale con una soluzione imprevedibile, è un’occasione per interrogare la propria natura di costruzione narrativa dalle infinite possibilità.
Come spiega alla fine lo studioso di Ts’ui Pen alla spia:
"Ts’ui Pen credeva in infinite serie di tempo, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità".
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il giardino dei sentieri che si biforcano: un racconto di Jorge Luis Borges
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