Il giardino perduto
- Autore: Elizabeth von Arnim
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Skira
- Anno di pubblicazione: 2016
“Il giardino perduto” (Skira, 2016, titolo originale The Pious Pilgrimage, traduzione e a cura di Masolino d’Amico) è il racconto, pubblicato nel 1900 a Boston in un’edizione di lusso e in contemporanea a New York su una rivista, della romanziera britannica, nata in Australia, Elizabeth von Arnim, pseudonimo di Mary Annette Beauchamp (1866-1941).
“Quando il grigio novembre arrivò e appese basse e ininterrotte le sue soffici nubi scure sull’avana dei campi arati e sul vivido smeraldo delle distese di grano invernale”
un pesante silenzio appesantì il cuore dell’autrice, cugina di Katherine Mansfield, amica di E. M. Forster e di Hugh Walpole. Elizabeth provava un desolato rimpianto delle cose belle dell’infanzia, delle carezze, delle consolazioni, della rassicurante fede nell’infallibile saggezza degli adulti. Dunque perché non tornare a rivedere il luogo
“dov’ero nata, e dove avevo vissuto per tanto tempo; il luogo dov’ero stata così splendidamente felice, così squisitamente sconsolata, così vicina al cielo, così prossima all’inferno?”.
Lì ora vivevano dei lontani cugini di von Arnim, con i quali l’autrice aveva perso i contatti, nonostante ciò Elizabeth decise di recarsi in “pio pellegrinaggio” in quel sito pieno di vivi ricordi. In una mattina calma, triste, gravata da una fitta nebbia la scrittrice animata dallo spirito del pellegrino, si ritrovò sul trenino della piccola ferrovia che attraversava il villaggio più vicino alla sua antica abitazione. Giunta a destinazione l’autrice, si domandò se non fosse stato meglio rinunciare a vedere la casa, “se fossi entrata dalla porticina nel muro in fondo al giardino, e per stavolta mi fossi limitata a questo?” Complice la nebbia
“avrei potuto aggirarmi a mio piacere, senza il minimo rischio di essere vista o di incontrare qualsivoglia cugino, e dopotutto era il giardino che mi stava più a cuore”.
Che gioia sarebbe stato infilarsi dentro inosservata, e rivisitare tutti gli angoli che ricordava così bene, e poi scivolare fuori e “filarmela sana e salva” senza alcun bisogno di spiegazioni, assicurazioni, proteste, manifestazioni di affetto, da parte dei cugini! Sì, era questa la soluzione migliore da adottare. Ecco quindi che von Arnim varcava la porticina in fondo al giardino della “casa dei miei padri”, che sarebbe stata sua se fosse stata un maschio.
“C’era un silenzio tale che avevo paura di muovermi; un silenzio tale, che potevo contare ogni goccia di umidità che cadeva dal muro trasudante; un silenzio tale, che quando trattenni il respiro per ascoltare, i battiti del mio cuore mi assordarono”.
Descritta da H. G. Wells come “la donna più intelligente della sua epoca”, von Arnim in questo racconto lungo seguendo un impulso irrefrenabile, l’11 novembre, il giorno dell’estate di San Martino varca il confine di un giardino incantato. Un eden che è quello mitico dell’infanzia dell’autrice: un paradiso perduto dal quale, venne espulsa alla morte di suo padre. Mentre l’io narrante si aggira di soppiatto per quei luoghi, badando a non farsi sorprendere, la clandestina incontra alcuni fantasmi del passato, o meglio, rievoca alcune figure della sua fanciullezza legate a esso: un nonno severo e atteggiato, “un buon tedesco”; un padre complice ma non disposto a compromessi; una comica istitutrice. Infine incontra, “magica e inquietante presenza in carne e ossa, una bambinetta saccente e indipendente chiamata proprio Elizabeth” come precisa d’Amico nella prefazione del testo.
“La bambinetta smise immediatamente di saltellare e mi si piantò saldamente davanti. «Chi sei?» disse, esaminandomi dal cappello agli stivali col più vivo interesse”.
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