Era il 1 maggio 1925 quando il quotidiano Il Mondo pubblicò Il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. Il testo fu ripreso anche dalla testata Il Popolo con il titolo di La replica degli intellettuali non fascisti al manifesto di Giovanni Gentile.
C’è stato un tempo, ormai lontano, in cui i proclami intellettuali ruggivano dalle pagine dei giornali e non si imbastivano sui social; in cui la parola scritta era pensiero, grido e strumento di difesa e le battaglie ideologiche si compivano a colpi di penna. Il caso del monologo di Scurati ebbe un illustre precedente nel Secolo breve. La risposta crociana seguiva la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile, lanciato sulle pagine de Il Popolo d’Italia in occasione del Natale di Roma.
Ecco che i principali esponenti della cultura italiana, all’indomani del delitto Matteotti, si dividevano in due schieramenti contrapposti e assolutamente inconciliabili. Non possiamo comprendere il manifesto crociano senza leggere il suo precedente gentiliano, dunque ecco il Manifesto degli intellettuali fascisti e quello che è passato alla storia come Antimanifesto a confronto.
Entrambi i testi, nel marzo 2024, sono stati editi in un’unica edizione da Passigli Editore con un’introduzione a firma del giornalista Aldo Cazzullo.
Fascismo e antifascismo a confronto: i manifesti intellettuali
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Il Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni, così titolava il testo di Gentile, ebbe numerosi firmatari - duecentocinquanta in tutto - tra cui figuravano Gabriele d’Annunzio, Giuseppe Ungaretti, Luigi Pirandello, Gioacchino Volpe, Ernesto Codignola, Margherita Sarfatti, Curzio Malaparte, per nominare i più noti. Il Manifesto Fascista, redatto in seguito al convegno del partito tenutosi a Bologna, glorificava la Marcia su Roma e l’azione coraggiosa di giovani “decisi a mettersi contro la legge per fondare una nuova legge”.
Nel testo gli oppositori del fascismo venivano definiti “avversari dello Stato” e chiamati detriti del “vecchio politicantismo” espressione di un principio politico inferiore e, come scritto, “campato nel vuoto”.
Queste parole probabilmente si insinuarono nella mente di Benedetto Croce come un tarlo. Il filosofo aveva guardato con curiosità al fascismo degli albori e al suo potenziale rivoluzionario: figurava infatti tra i 225 senatori che votarono la fiducia al governo Mussolini, se ne sarebbe in seguito pentito. All’epoca vedeva nel fascismo l’unico rimedio per poter superare la “paralisi parlamentare” del 1922. A lungo fu convinto di poter ricattare Mussolini attraverso un voto del Parlamento, prefigurava un ritorno allo Stato Liberale, inconsapevole invece che quella che veniva a instaurarsi era una dittatura.
Lo stesso Croce, che al principio era stato dalla parte di Gentile, dichiarò:
Vedete: il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che se ne vada. Ma deve andarsene senza scosse, nel momento opportuno.
Benedetto Croce e il fascismo come “malattia morale”
La presa di coscienza di Benedetto Croce sfociò nella più ferma opposizione, inaugurata dal suo Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, elaborata e meditata risposta alle teorie gentiliane. In seguito il filosofo avrebbe sostenuto la tesi del fascismo come “malattia morale”, che sarebbe stata superata dal progresso della Storia. Al principio Croce pensava che il fascismo sarebbe stato solo una parentesi tra la monarchia liberale e lo stato repubblicano, poi fu costretto ad accorgersi che non era così. La presa di coscienza vera e propria di Benedetto Croce avvenne dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio del 1925, quando il Duce si prese la responsabilità politica del delitto Matteotti. Nello stesso periodo era avvenuta la soppressione della libertà di Stampa e di libera associazione che fece inorridire il filosofo. Dopo la pubblicazione del Manifesto di Gentile il dado era tratto (alea iacta est, dicevano i latini) e Croce capì che doveva rispondere nella maniera filosofica che ben conosceva: ovvero contrapponendo a una tesi la sua antitesi. Fu a quel punto che Mussolini ufficialmente lo disconosce, affermando di non aver mai letto una parola di colui che definì il “filosofo dei distinti”. Eppure il fascismo aveva pubblicato diversi scritti crociani, quando ancora il filosofo appariva, pur nei suoi tentennamenti, allineato al regime. Nel novembre del 1926 la casa napoletana di Benedetto Croce fu devastata da una squadriglia fascista; fu l’unico atto violento esplicito compiuto dal regime nei suoi confronti, in quanto il filosofo era protetto da un’ormai solida fama. La sua rimase sempre una voce dissidente, durante tutto il ventennio.
Il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce
Benedetto Croce colse nell’aggressività dei toni del Manifesto fascista un pericolo da cui guardarsi. Aveva capito, del resto, che Mussolini non teneva in grande considerazione gli intellettuali. E aveva ragione; nei suoi Taccuini il Duce scrisse:
Gli intellettuali nella storia ci sono, li hai perennemente tra i piedi. Amici, li utilizzi. Inerti, devi guardartene, pronti come sono a lanciare la loro freccia.
Il fine di Mussolini era proprio accentrare gli intellettuali nel potere politico per indebolirne il dissenso e poi poterli pilotare come marionette, come accade al povero Giovanni Gentile che si trovò suo malgrado strangolato dal sistema.
Quello di Croce non fu, come molti credono, un testo scritto di getto. Le origini del Manifesto degli intellettuali antifascisti trapelavano già in un articolo pubblicato sulla sua rivista La Critica il 20 marzo del 1925. Il filosofo aveva ormai preso atto dell’aggravarsi della situazione politica; un mese dopo, su sollecitazione di Giovanni Amendola che gli scrisse:
Caro Croce, avete letto il manifesto fascista rivolto agli intellettuali stranieri?
Amendola sollecitava Croce a una risposta immediata. A quel punto capì che era giunto il momento di agire. Promise che una risposta l’avrebbe data, che stava abbozzando delle idee.
Manifesto degli intellettuali antifascisti: chi erano i firmatari?
Pochi giorni dopo fu pubblicato, sul quotidiano Il Mondo, l’Antimanifesto che trovava tra i firmatari anche Luigi Albertini (ancora per pochi mesi direttore del Corriere della Sera), Eugenio Montale, Matilde Serao, Luigi Einaudi, Emilio Cecchi, Carlo Cassola, Piero Calamandrei, Corrado Alvaro, Sibilla Aleramo e molti altri.
Lo scritto di Croce era una strenua difesa del Liberalismo democratico e della libertà morale dell’individuo, in opposizione alla vuota retorica della vittoria fascista.
Il Fascismo reagì immediatamente. Il 2 maggio fu pubblicata su Il Popolo d’Italia - principale organo di stampa fascista - una replica all’Antimanifesto crociano in cui lo si giudicava un “goffo documento di incomprensione politica e storica”. Mussolini stesso lo avrebbe citato in uno suo discorso, con sdegno, affermando di non aver mai letto una “parola di Benedetto Croce”.
E non pago della diminutio, aggiungeva, sprezzante:
I filosofi risolvono dieci problemi sulla carta, ma sono però incapaci di risolverne uno solo nella realtà della vita.
Questa l’articolata e “meditata” risposta di Mussolini all’antitesi proposta dal Manifesto crociano. Vediamo ora più nel dettaglio il contenuto del testo di Benedetto Croce.
Il Manifesto degli intellettuali antifascisti: un’analisi dei temi
Sin dal principio Croce ribadisce l’atto più anti-intellettuale compiuto dal regime fascista, ovvero la soppressione della libertà di stampa, definita una deplorevole violenza e prepotenza. Se gli intellettuali, ribadisce, come cittadini hanno il dovere di iscriversi a un partito e servirlo, come intellettuali non possono esimersi dal diritto di critica svolto anche attraverso gli strumenti dell’arte.
Varcare questi limiti dell’uffi cio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in
questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso.
Allude poi alla vuota retorica del manifesto gentiliano definendolo “un imparaticcio scolaresco” in cui si celebra, senza raziocinio, la “docile sottomissione degli individui al Tutto”.
Benedetto Croce celebra il Liberalismo democratico che non atomizza la vita politica, non la conduce a una visione organica e unica della realtà. Il liberalismo, che sostiene l’avvincendarsi dei vari partiti al potere, è per Croce la vera anima dell’Italia moderna e la conseguenza del Risorgimento. In questo il filosofo si oppone a quanti, all’epoca, vedevano nel Fascismo un “secondo Risorgimento”, una nuova impresa garibaldina. Croce invece coglie il segnale d’allarme di una retorica fine a sé stessa e di un patriottismo ridotto a una “monomania verbale”.
Soprattutto il filosofo critica l’abuso che, nel Manifesto Fascista, Gentile fa della parola “religione”. In virtù di una presunta fede al partito veniva promossa una forma di religione dell’odio e del rancore, ponendo gli italiani contro gli italiani.
Croce afferma di non aderire a questa religione caotica e insidiosa, ma di credere a quella che chiama la vecchia fede degli ideali risorgimentali, di coloro che per l’Italia patirono e morirono.
Nelle battute conclusive, Benedetto Croce definisce il Fascismo come un “invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie”.
In chiusura il filosofo critica la visione fascista del Risorgimento, che nel Manifesto di Gentile veniva descritto come l’opera compiuta da una minoranza. Eppure, nota Croce, la sfida del Risorgimento fu quella di chiamare un sempre maggior numero di italiani alla vita della cosiddetta “res publica”, in un’ottica appunto democratica e di suffragio universale.
Dunque Benedetto Croce poneva la libertà come principio morale e civile. Quell’Antimanifesto era, a ben vedere, già un anticipo della lotta partigiana e della futura Liberazione. Buon 25 aprile.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il “Manifesto degli intellettuali antifascisti” di Benedetto Croce: firmatari e storia
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