Si disse che dopo Auschwitz sarebbe stato impossibile fare poesia, poiché la poesia era da considerarsi un “atto di barbarie” dopo lo sterminio e l’orrore. Eppure la poesia, come la vita, continuò a esistere: lo dimostrò Primo Levi, con quella sua prima raccolta L’osteria di Brema, lo dimostrarono tutti i poeti che con lui affrontarono “l’ora incerta” del Secolo breve. Tra questi anche la poetessa tedesca Else Lasker-Schüler, considerata la “più grande voce lirica che la Germania abbia mai avuto”.
Nata in Vestfalia nel 1869, Schüler era la figlia di un banchiere ebreo: la sua lirica spesso coincide con la voce dell’esilio, dello sradicamento, dello smarrimento.
Nel 1933, in seguito all’ascesa di Hitler, fu costretta alla fuga da Berlino poiché nelle sue poche apparizioni pubbliche i nazisti l’avevano minacciata e percossa. Raggiunse la Svizzera, Zurigo, dove visse in condizioni di quasi totale indigenza. Sarebbe morta a Gerusalemme, nel 1945, come chiudendo un cerchio: nel suo destino si compiva la storia di un popolo, il popolo ebraico.
Una delle più celebri poesie di Schüler si intitola proprio Mein Volk, letteralmente Il mio popolo e in quei versi la poetessa rende testimonianza della propria origine ebraica. La poesia è contenuta nella raccolta Ballate ebraiche e altre poesie, pubblicata da Giuntina con la curatela di Maura Dal Serra.
Il poeta tedesco Gottfried Benn definì Else Lasker-Schüler come:
L’incarnazione lirica dell’elemento ebraico e di quello tedesco in una sola persona.
La storia di Else Lasker-Schüler rappresenta una chiave di lettura imprescindibile della Giornata della Memoria. Ancora oggi viene ricordata come una grande poetessa tedesca, eppure era ebrea e rivendicava le proprie origini nel grido lacerante che emerge dalle parole di Mein Volk, “il mio popolo”. Tutte le sue storie ebraiche erano scritte e redatte in tedesco, il che rende ancora più assurda la carneficina della Storia, il massacro di sangue nella poesia di Schüler si converte in una sorta di alleanza e di riconciliazione: identità linguistica e culturale si sovrappongono, si fanno forza a vicenda. Un canto ebraico scritto in tedesco, dunque, non appare come una contraddizione.
Quando a Gerusalemme venne proposto a Else Lasker-Schüler di far tradurre le sue poesie in ebraico, lei rispose:
Ma sono scritte in ebraico!
E rifiutò categoricamente la traduzione: lei scriveva in tedesco, ma le sue poesie vivono profondamente nella matrice ebraica da cui traggono origine.
Else Lasker-Schüler raccontava in tedesco - la sua lingua madre - la lacerazione del popolo di Israele: poteva esserci ancora la poesia dopo Auschwitz? La risposta è sì, perché la poesia riesce ancora a riconciliare ciò che la Storia divide.
“Il mio popolo” di Else Lasker-Schüler: testo
Diviene marcia la roccia
da cui nasco
e intono i miei canti a Dio…
Erto, cado dal sentiero
e scorre proprio in me
lontano, sopra
la pietra del lamento
il mare di fronte.
Sono defluita
dal mosto fermentato
del mio sangue.
L’arida terra pende ancora verde all’albero.
E ancora, ancora la risonanza
in me,
quando orridamente a Ovest
il rimasuglio della roccia marcia,
il mio popolo,
grida verso Dio.
“Il mio popolo” di Else Lasker-Schüler: analisi e commento
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Mein Volk è la seconda delle Ballate ebraiche (titolo originale Hebräische Balladen, Ndr), raccolta pubblicata per la prima volta a Berlino nel 1912 dall’editore A. R. Meyer. La metafora della roccia rappresenta il sentimento di lacerazione vissuto dalla stessa Schüler ed è anche il simbolo del popolo di Israele.
Nell’Antico Testamento infatti la roccia è la rappresentazione del Monte Sinai, dove Mosé ricevette da Dio le Tavole dei dieci comandamenti.
In questa poesia Schüler parla di “pietra del lamento”, con un duplice riferimento: la roccia dalla quale Mosé fece spillare acqua per abbeverare il suo popolo e anche il “Muro del pianto” di Gerusalemme, un luogo sacro.
L’intera lirica mescola immagini metaforiche (il mosto fermentato/il sangue) e pittoriche (terra arida/albero verde) con richiami biblici, pervasa da un senso di decadenza e da un’atmosfera cupa.
Alludendo all’esodo del popolo di Israele verso l’Egitto, Schüler riassume l’identità sradicata del suo popolo, costretto a un’eterna diaspora, a una ricerca inesausta della Terra Promessa. Il verso “orridamente a Ovest” è esemplificativo di questo conflitto, poiché la preghiera ebraica è rivolta verso Oriente.
Infine la poesia si conclude con una citazione dei Salmi, il grido rivolto a Dio è una preghiera contenuta nell’Antico Testamento.
Signore, Dio della mia salvezza, a te grido di giorno e di notte
Sono passati secoli e quel grido, che ribolliva nel fondo dell’anima di Else Lasker-Schüler, non si è ancora spento. Dopo Auschwitz si possono ancora intonare dei “canti a Dio”; la verità è che dopo Auschwitz la belva umana non si è ancora placata e se c’è una cosa che la poesia insegna è a non credere che la Giornata della Memoria sia rivolta al passato, perché è al presente che parla e continua a parlare. In seguito ai conflitti recenti oggi stiamo assistendo a una nuova (inquietante) ondata di antisemitismo.
Nella figura della poetessa Else Lasker-Schüler convivono due identità in conflitto: era ebrea, era tedesca, “vittima e carnefice” di sé stessa, ma la poesia non divide i torti dalle ragioni, si rende portavoce della lacerazione che, in fondo, è tutto ciò che possiamo comprendere.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il mio popolo”: la poesia di Else Lasker-Schüler dedicata al popolo ebraico
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