I fatti di cronaca di questi giorni hanno riportato alla ribalta la figura di Antigone. Infatti, alcuni hanno paragonato la capitana della nave Sea Watch, Carola Rackete, alla nota figura mitologica. Non è mio fine giudicare l’operato della Capitana, non essendo questo un sito politico ma di cultura, tuttavia il riacceso interesse verso Antigone dimostra che i miti greci non sono morti, non sono favole, ma anzi sono ben presenti nella nostra coscienza, si annidano in essa come archetipi sempiterni, strutturano la nostra mente senza che noi ce ne accorgiamo. La conoscenza dei miti, soprattutto di quelli greci, eleva l’essere umano ad una superiore consapevolezza, produce civiltà e rende tutti migliori.
Quando si parla del mito di Antigone si ricorda la storia di una ragazza che da sola ebbe il coraggio di contrastare leggi dello Stato da lei ritenute ingiuste. Non a torto, Antigone è da sempre considerata il simbolo della lotta contro il potere, della ribellione romantica e solitaria contro il dominio ingiusto di un tiranno senza limiti.
Tutti noi abbiamo pensato di essere, almeno una volta nella vita, come Antigone, e di contrastare quelle regole, scritte o non scritte, ritenute inique o vessatorie.
Non sempre, però, abbiamo avuto il coraggio di farlo, ma c’è un’Antigone in ognuno di noi, anche se non sempre si esterna.
Ripercorriamo quindi la vicenda di Antigone, una delle eroine più significative e decantate dell’antica Grecia. La vicenda, narrata nella nota tragedia di Sofocle, si sviluppa come conseguenza dell’assedio di Tebe, la città su cui aveva regnato il padre Edipo.
Morto Edipo, nacquero delle contese per la successione al trono: quale dei due fratelli figli del re, che si chiamavano Eteocle e Polinice, avrebbe dovuto succedere nel regno della città? Secondo diversi racconti, il trono spettava di diritto ad Eteocle, il quale divenne quindi re di Tebe.
Polinice non accettò di buon grado questa decisione e così si rifugiò ad Argo, la città storicamente rivale di Tebe. Dopo diverse peripezie sposò la figlia del re e si fece promettere, come regalo di nozze, la riconquista della città di Tebe. Tebe aveva sette porte e così furono scelti sette valorosi condottieri per conquistarla.
Nonostante gli sforzi dei valorosi eroi di Argo Tebe riuscì a sopravvivere; i due fratelli rivali, Eteocle e Polinice, si uccisero a vicenda davanti alla settima porta, così come aveva augurato loro il padre Edipo che, prima di morire, li aveva maledetti perché ciascuno di loro tentava di farsi nominare come legittimo successore.
Dopo la morte di Eteocle a Tebe prese il potere un altro re di nome Creonte. Per vendicare l’affronto fatto alla città da parte di Polinice Creonte emanò un editto secondo il quale il corpo del traditore avrebbe dovuto rimanere insepolto, sotto il sole cocente, ed essere sbranato dalle bestie. La violazione dell’editto era punita addirittura con la morte. Oltre ad essere un oltraggio, la mancata sepoltura significava per il mondo greco l’impossibilità di accedere al mondo dei morti, quindi di mettere in pace la propria anima.
È a questo punto che entra in scena Antigone, una delle figlie di Edipo, nonché sorella di Polinice. Antigone, violando le prescrizioni contenute nell’editto, diede una parziale sepoltura al cadavere. Parziale perché lo ricopri di terra senza sotterrarlo del tutto ma tanto bastava perché le norme si ritenessero violate. Non poteva sopportare che il proprio fratello non ricevesse una degna sepoltura, che il suo corpo rimanesse per terra, arroventato dal sole e sbranato a pezzi da uccelli e cani.
La notizia della sepoltura del corpo giunse al re e, per capire chi fosse il responsabile, il cadavere fu nuovamente messo allo scoperto; le guardie di Creonte si appostarono nelle vicinanze e con sorpresa colsero Antigone sul fatto, mentre stava ricoprendo un’altra volta il cadavere con terra ed acqua. Nessuno si aspettava che fosse proprio lei, una donna giovane, la responsabile del misfatto.
La ragazza fu così portata davanti al cospetto del re che era suo zio. Interrogata, rispose ammettendo senza esitazioni la propria colpevolezza. Tuttavia confessò di averlo fatto perché l’editto del re, che vietava la sepoltura del fratello, a suo giudizio andava contro a quei principi espressi da leggi non scritte ma naturali che accompagnano l’uomo da sempre.
Nessuna legge umana poteva, secondo Antigone, contrariare questi principi, nemmeno un editto dell’ente massimo, ossia del re. Nessuno quindi poteva impedire la sepoltura di un corpo, nemmeno se apparteneva ad un traditore; e soprattutto nessuno poteva vietare ad una sorella di seppellire il proprio fratello.
Riportiamo un breve cenno della tragedia “Antigone” scritta da Sofocle nella traduzione di Raffaele Cantarella. È il momento in cui la ragazza risponde al sovrano sui motivi che l’avevano spinta a violare l’editto:
“Non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte ed incrollabili degli dei. Infatti, queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero”.
Il re ricorda alla ragazza il tradimento di Polinice verso la città:
“Ma il nemico non è mai caro, neppure quando sia morto”.
È a questo punto che Antigone pronuncia una frase che rimarrà scolpita nel cuore di tutti i lettori per secoli, una frase commovente e nello stesso tempo straziante:
“Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore”.
Dopo queste parole Antigone fu imprigionata e lasciata morire in carcere. Per lei infatti, non fu applicata la pena di morte perché nessuno ebbe il coraggio di ucciderla. Presto diventò il simbolo della ribellione contro le leggi ingiuste, che non rispettano principi civili e non scritti che sono presenti da sempre, da quando l’essere umano è comparso sulla terra.
Riflettendo su questa tragedia, ciascuno di noi può domandarsi: «quando sono stato o stata un’Antigone?», «Quando invece non ho avuto il coraggio di esserlo?». Domande che solo i miti greci, con la loro forza e irruenza, possono porci in maniera così lucida e travolgente.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il mito di Antigone: una donna sola contro il potere
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Ho deciso di inserire questo mio pensiero come commento, per non compromettere la lettura dello scritto su Antigone.
Vorrei focalizzare l’attenzione sulla totale mancanza di umanità verso quei migranti della Sea Watch, costretti a stare oltre 20 giorni in mare, in barba a tutte le regole di civiltà, cristiana e umana.
Niente ci legittima ad essere così indifferenti, nemmeno la crisi economica.
Non rimaniamo umani quando facciamo finta di non sapere che migliaia di persone vengono torturate in Libia. Ma lo sappiamo, e facciamo finta di niente.
Che umanità siamo?
Capisco le paure, ma non posso tollerare la mancanza di civiltà, la deumanizzazione verso il prossimo, l’odio dirottato verso una categoria di persone.
E se non iniziamo a riflettere su queste cose, nulla ci salverà dalla fine, nemmeno i nostri beni superflui.
A mio parere la sostanza e l’essenza del mito di Antigone è nella lotta tra il potere senza legge umana e la la ’giustizia-legge’ umana (poi identificata questa con il diritto naturale e quella- del potere- con il diritto positivo). Edipo è il potere ’preso’ con la forza dell’omicidio del padre (la legge naturale), e condannando i figli in lotta per la successione è un ravveduto che vede lontano: il potere nega con le sue leggi l’umano e la giustizia connessa! Il vedere il diritto positivo incarnato dal potere è un’operazione riduttiva, anche se muove dal dato dell’uso del diritto positivo da parte del potere!