Il nome del padre
- Autore: Flavio Villani
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Neri Pozza
- Anno di pubblicazione: 2017
È confortante scoprire che nel vasto mare della letteratura italiana di genere è ancora possibile approdare nelle sicure acque di una lettura intelligente, ben congegnata e di indubbio valore stilistico.
Ci riferiamo al romanzo del milanese – neurologo, ma evidentemente dotato anche di talento letterario – Flavio Villani, “Il nome del padre” (Neri Pozza, 2017, collana I Neri), un romanzo che si inserisce a pieno titolo nella grande tradizione italiana del poliziesco ed ha tutte le carte in regola per diventare un classico.
Siamo a Milano, dove, al commissariato di Città Studi, la viceispettrice Valeria Salemi si sente annegare fra inutili scartoffie, in un caldo e anomalo agosto.
Dopo sei mesi, nessuna notizia della sua domanda di trasferimento all’antimafia, dove – ne è convinta – potrebbe sentirsi di nuovo vitale, utile.
Il suo capo, il commissario Cavallo, ricorda così le estati di trent’anni prima: calde da impazzire e silenziose; senza aria condizionata, passate in maniche di camicia, sudato marcio nell’ufficio della Mobile, al secondo piano del Fatebenefratelli, in un silenzio di pietra, nell’attesa di uno squillo del telefono.
Pensare al commissario, alla sua figura smagrita ed alle spalle curve, le provoca qualcosa di simile alla tenerezza o alla nostalgia – stati d’animo che lei odia.
Proprio oggi l’ha chiamata nel suo ufficio per consegnarle un plico spesso due dita:
“L’esordio della mia carriera in un agosto solitario e caldissimo come questo, tanto tempo fa. La memoria è troppo labile, sono arrivato a pensare che scrivere fosse la cosa giusta. Qualcuno potrebbe chiamarlo romanzo, io no. Un romanzo dovrebbe avere un finale. E qui, purtroppo non c’è”.
Ciò che le resta da fare, anche se con una certa riluttanza, è leggere il manoscritto.
Siamo in un’altra estate, ma altrettanto afosa: l’agosto del 1972.
Al giovane viceispettore Rocco Cavallo giunto da poco a Milano dal Sud, e in servizio presso la Squadra Mobile, viene annunciato il ritrovamento di un cadavere nel deposito bagagli della Stazione Centrale. Il corpo, fatto a pezzi – impossibile dire se quei resti marcescenti, privi di vestiti, appartengano a un uomo o a una donna, né indicare l’età approssimativa – è stato infilato in una valigia arrivata lì due giorni prima, il 12 agosto.
Molti della squadra omicidi sono in vacanza – fra questi il commissario Naldini, più impegnato a pensare alle pubbliche relazioni ed agli avanzamenti di carriera che al lavoro sul campo – e Cavallo, certo del rientro di qualche capo per coordinare l’investigazione, vuole fare bella figura, dimostrare di non essere il pivello privo di esperienza che tutti credono, e avviare l’inchiesta nel migliore dei modi.
Informato dei fatti mentre si trova sulla riviera romagnola, il dottor Naldini sembra però convinto fin da subito che si tratti dell’omicidio di una prostituta – forse in seguito ad uno sgarbo fatto a qualcuno –, e che tutto si possa risolvere con un’irruzione: oltre a trovare il colpevole, un’azione dinamica e fulminea metterebbe a tacere i giornalisti.
La stampa, infatti, non ha perso tempo ed i cronisti di nera sono piombati sulla Centrale come falchi, per poi fare riferimento al “Macellaio della Martesana”: roba vecchia, l’omicidio di una donna, nel ’45, col cadavere fatto a pezzi, come in questo nuovo caso, e un nome coniato per vendere più copie, il “macellaio”.
Dopo aver strappato il foglio con i suoi appunti e con le azioni che intendeva intraprendere, Cavallo – un mollusco senza volontà, un burattino nelle mani di Naldini, che ha estromesso dalle indagini anche il commissario Vicedomini – deve organizzare con Ferretti della Buoncostume un’irruzione, con relativa perquisizione e arresto.
Nonostante qualche iniziativa personale, come una ricerca presso l’ufficio persone scomparse e una visita al medico legale che gli consegna una croce ortodossa trovata nella fodera della valigia, utile forse per l’identificazione del cadavere, Cavallo cerca di convincersi che nella teoria di Naldini possa esserci un fondo di verità.
I sospetti si concentrano su Totò il guercio – un soggetto che al viceispettore pare più un damerino prudente e, da vero pappone, codardo e vanesio –, avvalorati dal fatto che una certa Ekaterina Ivanovna, detta Ingrid, una prostituta russa che lavorava per lui, pare essere scomparsa.
Ma in questo piano fin troppo perfetto, un teorema basato sul nulla, su illazioni che non garantiscono alcuna relazione fra i due fatti – il ritrovamento del cadavere e la presunta sparizione di una prostituta – la piena confessione di Totò, così a portata di mano dopo l’arresto, non arriva.
In questa situazione priva di reali prospettive, il commissario Vicedomini insiste per parlare a Cavallo, per metterlo al corrente di una serie di fatti che sicuramente lo aiuteranno a far luce sul delitto della valigia.
È qui che la narrazione compie un nuovo salto temporale.
Era il novembre del ’44 , quando il cadavere di una donna fu rinvenuto da alcuni ragazzini una domenica mattina, dopo la messa, sull’argine della Martesana, appena oltre i confini di Crescenzago. Il corpo, o quello che rimaneva, era semi affondato nel fango, mancava la testa e le mani erano state asportate malamente. Fu allora che il nome di “macellaio” fece la sua comparsa per la prima volta. In periodo di guerra, la morte violenta sembrava far parte degli accadimenti inevitabili del vivere e nemmeno il crimine più efferato smuoveva più le coscienze.
Poi, il riconoscimento della vittima, scomparsa nell’ultimo mese – una giovane operaia presso un’importante fabbrica metallurgica che produceva proiettili per armi leggere –, l’evidente legame con la scomparsa, tre anni prima, di un’altra ragazza della stessa fabbrica, e il presunto coinvolgimento dei proprietari, i Fedrigotti.
In quell’occasione, Italo Naldini aveva accusato Vicedomini di trarre conclusioni avventate e aveva cercato di dissuaderlo dal proseguire l’indagine, che era sfociata in un nulla di fatto.
Ma l’uomo era convinto che l’assassino di quelle donne fosse lo stesso della donna nella valigia: non era mai stato preso e poteva aver colpito ancora senza essere scoperto.
Nonostante le analogie e alcuni indizi schiaccianti, il caso del ’72 – proprio come quello del ’44 – rimane irrisolto, ma i fantasmi di quelle tre donne hanno tolto il sonno al commissario Cavallo per trent’anni.
Anche Valeria Salemi, dopo aver letto il manoscritto, si sente fortemente coinvolta nel tentativo di scrivere il finale di questa storia: non si tratta certo di un romanzo mediocre che si dimentica dopo aver girato l’ultima pagina.
Ma ha senso, dopo tutto questo tempo, riaprire le indagini, inseguendo il destino dei protagonisti di allora e, soprattutto, sarà possibile trovare il colpevole di quei delitti ormai dimenticati e dare un nome alla vittima?
Come tutti i grandi romanzi, “Il nome del padre” appassiona il lettore fin dalle prime righe, con diversi livelli temporali ben gestiti – l’espediente del romanzo nel romanzo, a scatole cinesi –, e con un trasporto che non si affievolisce neppure nel finale, dopo una serie di colpi di scena.
Nella lunga genealogia dei detective, la normalità non è mai stata una regola, ma Rocco Cavallo si distingue forse proprio per la sua ordinarietà portata quasi all’eccesso: raramente si abbandona al turpiloquio, è molto abitudinario, in fondo è rimasto un bambino e deve ancora capire che ciò che funziona a meraviglia quando si hanno trent’anni o quarant’anni, a sessant’anni suonati, può diventare perfino pericoloso; non è un tipo curioso, gli basta che il lavoro sia svolto celermente e con precisione e il suo riserbo è dovuto ad un’educazione vecchio stampo.
Inoltre:
“…il suo desiderio di giustizia era rimasto lo stesso di quando aveva avuto la sua prima inchiesta fra le mani. Il suo rammaricarsi per quel primo fallimento era ancora forte e chiaro, e doveva pungergli l’anima come l’aculeo di un fico d’India infisso nella carne. I dolori dell’anima non sono esclusivo appannaggio della gioventù”.
Insieme a Cavallo, a Valeria Salemi e all’ispettore Gennaro “Gegè” D’Ambrosio, Naldini, Vicedomini, i colleghi, i magistrati, le vittime e i colpevoli e le tante “comparse”, testimoniano la capacità di Flavio Villani di creare e mantenere personaggi reali, umanissimi, contraddittori e inquieti.
Il romanzo è ambientato in una geografia urbana, la città di Milano e alcune sue periferie, straordinariamente descritta in diversi periodi della sua storia, nel caldo opprimente e nella luce intensa di due estati anomale.
Una città che si aggiunge a pieno titolo ai protagonisti di questa vicenda e che, letta nelle pagine di Flavio Villani, appare non solo credibile, ma forse più reale di quella che conosciamo.
Lasciamo invece che sia il lettore a scoprire, apprezzare e riflettere su una serie di altri temi contenuti ne “Il nome del padre”, primo fra tutti, i rapporti di potere, siano essi fra colleghi di Polizia o con la magistratura, fra proprietari e operai, in tempo di guerra o ai nostri giorni, in ambito laico o ecclesiastico.
Dal punto di vista della struttura narrativa, si passa dalla narrazione contemporanea in terza persona delle prime pagine, al manoscritto in prima persona, caratterizzato da una scrittura semplice e serrata, che descrive gli avvenimenti uno dopo l’altro.
Nella parte conclusiva, dopo essere tornato al narratore esterno, il romanzo si chiude con alcune pagine di diario.
È questo il finale che si sono meritati – protagonisti e lettori.
Non sappiamo se è nelle intenzioni di Flavio Villani permetterci, come vorremmo, di seguire questi personaggi in altri libri: per il momento, rimane la consapevolezza di un triste commiato, che la giustizia e la verità ristabilite riescono a mitigare solo in parte.
Il nome del padre. Le inchieste del commissario Cavallo
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il nome del padre
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