Il paese più straziato
- Autore: Roberto Marchesini
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2011
Grande Guerra, malattie psichiatriche, soldati come automi. Una schiera senza fine di giovani analfabeti: il nostro esercito nel 1915-18 era composto per oltre la metà da contadini. Si aggiravano in “campagne” irriconoscibili, arate dall’artiglieria, seminate di relitti di acciaio e di cadaveri. Ma la devastazione era anche dentro di loro. Era la loro mente “Il paese più straziato”, titolo del saggio (pubblicato nel 2011 da D’Ettoris Editori, pp. 150, euro 15,90) nel quale lo psicoterapeuta Roberto Marchesini approfondisce un tema finora soltanto sfiorato dalla saggistica della Grande Guerra: i disturbi psichici dei soldati italiani nel primo grande conflitto mondiale.
Soprattutto in fanteria, la percentuale di contadini era altissima. Era quella l’estrazione sociale pressoché totale e questo spiega la capacità di sopportazione di disagi inauditi, un aspetto importante e identitario del soldato italiano nel complesso della guerra in Europa, un carattere rilevante ai fini di una valutazione delle qualità morali medie e del modo in cui queste influenzarono l’atteggiamento della nostra gente in quella prova difficile.
Non era facile la vita nell’Italia dei primi del ‘900: l’aspettativa media superava di poco i cinquant’anni, la settimana di lavoro non finiva mai, da 60 a 72 ore. Faceva eccezione il lavoro nei campi, ma solo perché non consentiva affatto riposo. L’alimentazione abituale era tanto frugale – fa notare l’autore - che la sbobba militare fece ingrassare parecchi soldati. Le malattie più diffuse (pellagra e anemia) si dovevano alla scarsità di calorie e proteine, per via di una dieta obbligata estremamente povera e delle cattive condizioni igieniche (tisi). L’altezza media della popolazione maschile non superava l’1.60-1.65.
Il livello culturale nazionale rispecchiava quello delle nostre truppe, molto basso, esclusi gli ufficiali di complemento, in genere studenti d’estrazione borghese. Nel 1911 il grado d’analfabetismo nell’esercito italiano toccava il 33% (10% tra piemontesi e lombardi, 60% tra lucani e calabresi). Su 5 milioni e 750 mila combattenti nel ’15-’18, 2 milioni e 600 mila erano contadini, arruolati in fanteria, che sopportò il massimo peso delle perdite totali: il 95%.
Proprio per la durezza della vita civile, partendo da condizioni se non di deprivazione, certamente peggiori rispetto ai cittadini-combattenti di altri eserciti, il soldato italiano dimostrò buone qualità morali: l’abitudine alla fame e alla fatica permise di superare i sacrifici, gli stenti, le sofferenze, nel fango delle trincee.
Ogni reggimento attingeva reclute da distretti di reclutamento di tutt’Italia, per questo, da un lato gli uomini non si trovarono completamente spaesati all’interno del battaglione, ma vennero pure in contatto con italiani provenienti da diverse regioni della penisola. La Grande Guerra diventò un momento di reale unificazione del Paese.
Va però considerato che i pesantissimi e prolungati turni in linea, gli assalti, la convivenza costante con la morte, procurarono danni gravi al fisico e, per quello che interessa Roberto Marchesini, soprattutto alla psiche dei militari.
L’autore offre un quadro necessariamente sintetico della gamma intera di disturbi psicopatologici rilevati negli anni del conflitto. L’esposizione è priva di termini complessi, non scivola mai in un tecnicismo pedante. Il saggio è leggibile, un libro per tutti. Descrive e classifica in modo schematico la serie di sindromi riscontrate nei combattenti italiani durante e dopo l’esperienza bellica: disturbi della percezione, stati emotivi “commozionali”, alterazioni della coscienza e della personalità, stress psicomotorio che provocava tremori parossistici involontari e incontrollabili.
Volendo generalizzare, si può distinguere una linea di demarcazione tra il primo anno di guerra e i seguenti. In avvio del conflitto gli psichiatri tendevano a distinguere i soldati tra buoni - quelli che sopportavano la prova psicologica - e cattivi, i malati, i deboli. Questa distinzione semplicistica andò in crisi presto, di fronte all’evidente patogenicità psicologica senza precedenti di quella guerra, capace di demolire anche i caratteri più saldi.
Gli alti comandi cercarono di spersonalizzare il singolo, per adattarlo alle esigenze belliche. Doveva essere rozzo, ignorante, passivo, privo di una personalità spiccata per assumere meglio quella di soldato-massa, più utile all’esercito. Il contadino semplice e ignorante si prestava perfettamente a subire la trasformazione. È forte l’analogia tra il soldato e gli operai delle nuove catene industriali di montaggio: in entrambe le situazioni, quello che veniva richiesto era l’apprendimento, fino all’assuefazione, di gesti che dovevano diventare ripetitivi, meccanici, impersonali, totalmente massificati.
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