Il rumore del tempo
- Autore: Julian Barnes
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2016
Che cos’è l’arte? Che relazione c’è tra arte e politica? E tra arte e potere?
A queste domande prova a fornire una risposta Julian Barnes in Il rumore del tempo (Einaudi, 2016, trad. di Susanna Basso), utilizzando come incursore, nel campo della concezione dell’arte, il pianista e compositore Dmitrij Sostakovic. Nato in URSS nei primi anni del XX secolo, era già famoso in tutto il mondo quando, nel 1936, l’esecuzione al Bol’soj di Mosca della “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” fu commentata dalla Pravda come Caos anziché musica e accusò l’opera di soddisfare il gusto morboso del pubblico borghese con una musica inquieta e nevrastenica.
Siccome non v’era foglia che si muovesse in URSS senza il placet di Stalin, il giudizio fu immediatamente riferito al parere del leader.
La vita di Sostakovic cambiò radicalmente: nell’immaginario collettivo, lui era un musicista incline alla fascinazione borghese, antiproletario e nemico dell’URSS; cominciarono anni segnati dalla paura della prigione, o peggio. L’alternativa, che sarà il bivio perenne nella vita del musicista, sarà vivere l’obbrobrio della delazione e della complicità con il potere, oppure soccombere: l’artista, pur nel travaglio della scelta, optò - malgrado una certa discontinuità comportamentale - per la prima alternativa.
Il grande prestigio internazionale che acquisì Sostakovic suggerì al potere un diverso utilizzo dell’artista, indirizzato a uno scopo apologetico: diverrà un ventriloquio delle tesi del dispotismo sovietico che, sostenute dall’insigne compositore, sembravano assumere un maggiore gradiente di veridicità. Viene convinto a recarsi negli Stati Uniti a rappresentare l’URSS sostenendo, contrabbandandole per proprie, le tesi degli oligarchi del Partito. Durante la conferenza, ha un vivace scontro con un altro grande figlio dell’URSS ma dissidente, Nabokov, l’autore di Lolita, il quale, al sicuro in America, pretenderebbe da Sostakovic una totale abiura del comunismo sovietico; il compositore invece sosterrà come proprio il testo della relazione. Adesso il potere lo riempie di prebende e premi: la sua fama è un ottimo veicolo di propaganda, s’arriva fino a convincerlo a iscriversi a quel partito che da giovane aveva osteggiato la sua musica: è vecchio, stanco e nauseato dai compromessi che ha dovuto accettare e, finalmente, autoassolvendosi comprende che:
"essere un vigliacco non è facile. Molto più facile essere un eroe. A un eroe basta mostrarsi coraggioso per un istante: quando estrae la pistola, quando lancia la bomba, attiva il detonatore, fa fuori il tiranno e poi sé stesso. Essere un vigliacco significa invece imbarcarsi in un’impresa che dura una vita. Richiede costanza, fermezza, impegno a non cambiare, il che si risolve in una certa qual forma di coraggio".
Prima della fine, Sostakovic rammenta un oscuro giorno quando, in compagnia di un suo amico, aveva brindato - alla libertà, alla musica, all’arte, ma sì… alla vita… - insieme a un mendicante, in una lercia stazione ferroviaria: il suono del tintinnio dei bicchieri che battevano per un immenso attimo aveva cancellato il suono del tempo, rendendo l’istante, come nel Faust di Goethe, immortale, potere o non potere pronto a soverchiarlo: ai posteri perverrà, deve aver pensato, solo la mia musica, fuori dal tempo.
Il rapporto tra arte e potere nel libro di Julian Barnes
L’arte e il potere: un rapporto al vetriolo. Per definizione l’artista non può fare propri i vincoli etici, formali, estetici, fissati dal convenzionalismo politico. Montagne di minacce sussurrate, prepotenze anche fisiche e oceani di passioni necessariamente represse hanno sempre fatto emergere il problema, forse insolubile, del rapporto fra arte e potere e gli infiniti elementi connessi.
La tesi di Barnes ha due perni:
- il primo riguarda l’insostenibilità etica di qualsivoglia censura posta all’artista,
- il secondo - più velato, quasi romito nell’ordito del libro - rivendica l’esistenza di una mitica terra franca per l’arte, essa si manifesterebbe in un habitat “al di là del bene e del male”, fuori dalla giurisdizione della politica, l’arte avrebbe la purezza, l’incontaminazione, dei non schierati.
Mentre non vi sono, credo, dubbi sulla condivisibilità del primo punto, il secondo merita una più profonda analisi. Durante un periodo di rivoluzione politica, cioè di cambiamento radicale degli assetti socio-economici, gli individui cambiano, necessariamente, natura: vedono il mondo con altri occhi, pupille nate di recente, con strappi sulla pelle, forniscono visuali nuove sulle vecchie cose, giudizi differenti su tuto; si deve reinventare, finanche, il modo di sognare e di amare. In una parola: i cambiamenti politici radicali, positivi o negativi che li si voglia giudicare, inducono cambiamenti nella weltanschauung, nel modo di rapportarsi al Tutto; la metamorfosi socio-economica si accompagna a quella della cultura. In questa rappresentazione non è pensabile che l’arte non riguardi la politica, che non la interroghi, che - eventualmente - non la critichi. L’arte, in ogni caso, è dentro la cittadella della politica.
Pertanto, come c’è una politica che sposa la legge del totalitarismo oppure del libero mercato, vi sarà un’arte coerente con questi modi di pensare e, similmente, vi saranno espressioni artistiche nel solco o fuori l’ideologia della destra e della sinistra. Ciò è evidente ove si tenga conto che la politica non si muove nell’iperuranio, ma è alimentata e a sua volta alimenta la filosofia.
Alcuni esempi tratti dalla pittura possono aiutare a chiarire il punto: a fine del XIX secolo il positivismo ebbe come versante artistico il divisionismo, associato alla tecnica del puntinismo; il simbolismo, a cavallo di fine 1800 e inizio 1900, è figlio di Freud, che poi improntò del suo pensiero, attorno al 1920, il surrealismo; il cubismo del primo decennio del 1900 attinge alla filosofia di Bergson e alla fisica di Einstein; i dadaisti degli anni trenta si ispirarono al pensiero di Nietzsche. Come l’architettura rinascimentale è figlia della filosofia dell’epoca improntata all’antropocentrismo, che sfociò poi, nel XVI secolo, nel Protestantesimo, il barocco, che esautorò l’Uomo dal centro della scena per porvi le Divinità, è l’arte della Controriforma.
All’inizio del 1800 Hegel aveva previsto che lo sviluppo della spiritualità umana, io credo che lui intendesse della ragione, avrebbe comportato la morte dell’arte. Oggi è facile vedere che le cose sono andate diversamente: questa è una componente importante della cultura di una certa fase storica, come le idee filosofiche e le prassi politiche che a esse si rifanno; del resto, come riporta Kant nella “Critica del giudizio”:
“l’arte è bella quando il suo scopo è di accoppiare il piacere alle rappresentazioni come modi di conoscenza”
quindi – ad avviso di Kant - l’arte ha anche una funzione epistemologica.
Il totalitarismo del potere e la reazione all’arte è intollerabile, ma negare che l’arte abbia un versante politico è sbagliato, è sminuente nei confronti dell’arte stessa che penetra anche la prassi politica. Come ebbe a dire Mussolini:
“Anch’io sono un artista, l’arte di governare gli uomini è superiore a tutte le altre!”.
In conclusione, mi si conceda una digressione: andate a risentire, fra i lavori per pianoforte, i preludi e le fughe, ispirati a Bach: è il più bel tributo da riconoscer al genio di Sostakovic; la sua immortalità nell’Olimpo dei grandi sia parziale indennizzo al livore di cui è stato vittima da parte di un potere rozzo e becero.
Il rumore del tempo
Amazon.it: 10,20 €
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Un libro perfetto per...
A chi sia interessato ai condizionamenti della produzione artistica o, più generalmente, all’impatto della politica sulla nostra visione del Tutto.
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il rumore del tempo
Lascia il tuo commento