Il rumore di quest’epoca
- Autore: Fernando Aramburu
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Guanda
- Anno di pubblicazione: 2021
Fernando Aramburu è diventato noto al pubblico italiano per il suo romanzo Patria, bestseller ambientato nei Paesi Baschi con al centro le vicende di due famiglie prima amiche e poi divise da sentimenti e antagonismi e da cui ne è stata tratta anche una serie tv prodotta da HBO e ancora però inedita in Italia. Patria ha indubbiamente consacrato l’autore di San Sebastián anche in Italia; tuttavia, e qui veniamo al volume di cui stiamo parlando, non proprio tutti sanno — ed è stata una sorprendente scoperta anche per me — che da metà del 2017 fino a metà del 2018 Aramburu ha curato una rubrica settimanale per il quotidiano iberico El Mundo dal titolo Entre coche y andén, ovvero “Tra la vettura e il marciapiede”, nella quale si prometteva di fare letteratura attraverso il medium giornalistico. Si apre così infatti il volume Il rumore di quest’epoca (Guanda, 2021, traduzione di Bruno Arpaia):
“Sbaglio se associo il giornalismo d’opinione alla letteratura? […] Attribuisco alla carta stampata la capacità di generare la propria letteratura, indipendentemente dal fatto che apra le porte anche ad altre modalità di creazione letteraria come il racconto o, in epoche ormai piuttosto lontane, il romanzo a puntate. L’articolo di opinione è la forma genuina di questa espressione letteraria, un testo che condensa in un breve spazio di scrittura pensieri, ricordi, ritratti, confutazioni, commenti eccetera”.
Il volume raccoglie una selezione di 81 articoli usciti sul quotidiano spagnolo durante questa collaborazione, che l’autore ha peraltro avuto l’umiltà di riconoscere come breve e di cui non ha voluto approfittare ulteriormente venuti meno, a un certo punto, gli spunti di riflessione.
La raccolta si configura come un itinerario che spazia dalle riflessioni più intime a quelle di carattere più universale. Il lettore vi troverà un Aramburu intimista, che parla della sua esperienza come alunno, dell’aria di libertà provata negli anni ’80 frequentando l’università a Saragozza, dove “eravamo giovani e liberi in un paese che aveva appena spalancato le finestre dopo lunghi decenni di aria stantia, un paese ansioso di modernizzarsi e superare i propri complessi” e che riflette poi sulla sua importanza di avere dei buoni
“professori e maestri, uomini e donne, che forse hanno risvegliato in noi una determinata vocazione, hanno fomentato la nostra creatività, ci hanno aiutato a esercitarci nel godimento dei beni culturali, ci hanno dato un esempio di integrità e ci hanno resi consapevoli del fatto che la volontà di conoscenza è una delle principali garanzie dei cittadini liberi”.
Così come avrà l’opportunità di conoscere l’Aramburu dall’altro lato della cattedra nell’esercizio della professione docente – durata peraltro ben ventiquattro anni prima di dedicarsi alla scrittura – e che nota, non tradendo un certo orgoglio e una certa emozione, che
“i veterani della docenza conoscono bene la fitta di orgoglio che si prova constatando che un ex alunno si è fatto strada nella vita. […] Non sono esattamente figli miei; ma al sottoscritto, che non è di ghiaccio, fa piacere vederli come tali o, in ogni caso, come nipoti. E quando qualcuno, con un messaggio privato su un social network, ha la deferenza di mandare al suo ex professore qualche riga di ringraziamento, la cosa corre il rischio di assumere una piega lacrimevole”.
Un ritratto in forma orizzontale dunque, pagina dopo pagina, alla scoperta anche di quei magrisiani “alfabeti” che rappresentano la biblioteca intima dell’autore, costruita però lentamente e con fatica a partire da incontri ed esperienze personali:
“Non ho messo piede sulla Luna né ho scoperto continenti, ma come a tutti mi sono successe cose. Nella biblioteca, mi dico, è riassunta la mia vita come in un album fotografico, in molti casi indipendentemente dal contenuto dell’opera, soltanto per averla ricevuta o letta in una determinata situazione personale che la memoria non ha dimenticato. Questa impressione è favorita dal fatto che, quando ero bambino, nella casa di famiglia non c’erano libri. La vita o la sua trama, che alcuni chiamano destino, ha preferito farmi crescere in assenza di una biblioteca”.
Il rumore di quest’epoca è però anche un viaggio che ci conduce all’interno del suo laboratorio di scrittura: e così scopriamo che Aramburu, nelle sue sessioni di scrittura, ama concedersi una pausa ogni tanto gozzovigliando per dieci minuti su Internet, offrendoci l’immagine dello scrittore come colui che “si prende cura di sé come se fosse una foca del circo, alla quale il domatore regala un’aringa ogni volta che fa bene un esercizio”. Una scrittura, quindi, nella quale l’autore non nasconde anche una certa punta di ironia e di sarcasmo nel raccontare i propri aneddoti o le proprie passioni, attingendo sempre al serbatoio della memoria.
Memoria che è al centro anche delle riflessioni di più ampio respiro condotte qui; in controluce infatti non si possono non leggere alcuni riferimenti a Patria. Due, in particolare, i momenti centrali nel volume: l’importanza del perdono e della memoria. Il primo "è terapeutico perché permette di distanziarci da ciò che ci fa male, ci corrode, occupa nocivamente le nostre veglie e i nostri sonni"; la memoria storica invece, evocata grazie alla struggente immagine dei “sampietrini della memoria” situati in Germania – dove l’autore risiede e con la cui cultura spesso si confronta in altri articoli, scherzando anche sulle differenze fra il calore iberico e la freddezza teutonica – è occasione per ribadire l’importanza della letteratura come veicolo di testimonianza universale, trascendendo quindi anche lo specimen letterario dell’ETA e della sua narrazione così tanto presente al centro delle sue narrazioni. Un’occasione, pertanto, per renderci persone migliori, capaci di non dimenticare il dolore degli altri.
“La cosiddetta memoria storica dovrebbe servirci a qualcosa di più che a regolare i conti, a ravvivare rancori o a cercare di cambiare a piacimento il segno dei vecchi tempi. Risulterebbe vantaggiosa per la società se servisse a fare di ciascuno di noi, o almeno di molti, persone migliori. Non so, più serene, più sensibili, meglio educate. Io, in ogni caso, ho preso l’abitudine di non passare sui sampietrini della memoria senza soffermarmi a leggerli per un istante”.
Il rumore di quest'epoca
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