Il saldatore del Vajont
- Autore: Antonio G. Bortoluzzi
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2023
Lo sguardo acuto e pragmatico di un tecnico saldatore e l’occasione imprevista di una visita alla centrale idroelettrica di Soverzene diventano il pretesto, strutturalmente ineccepibile, per introdurre il lettore ab intra a quella che ha rappresentato una delle più grandi stragi annunciate del secondo Novecento: il disastro del Vajont.
A sessant’anni di distanza rappresenta ancora una scheggia appuntita conficcata nella memoria collettiva, così come la diga, imponente parentesi di acciaio, è incastonata in tutta la sua perentoria integrità nella vallata rocciosa. C’è “un prima e un dopo” il Vajont, come ben chiosa l’autore de Il saldatore del Vajont (Marsilio, 2023).
Si è scritto tanto sull’argomento, se ne è parlato spesso, anche in maniera non propriamente corretta ma Antonio G. Bortoluzzi, con la sua penna onesta, scorrevole e accessibile, abbraccia un’impresa meritoria e originale: un percorso guidato che ricostruisce questa vicenda, a favore dei posteri, attraverso il vissuto, i ricordi, le testimonianze, i racconti, le documentazioni, le emozioni e il riconoscibilissimo approccio tecnico a cui già l’autore ci aveva abituato nel suo romanzo precedente Come si fanno le cose (Feltrinelli, 2023).
Entriamo, insieme al protagonista, saldatore di comprovata esperienza, nel cuore della centrale, attraverso le gallerie e le condotte, un viaggio che diventa una via crucis composta nel ricordo e nel rimando, mentre nel ventre e sul coronamento della diga si consumano riflessioni amare sugli egoismi e personalismi degli uomini, sulla loro sete di denaro, di potere, di progresso ad ogni costo, di prevaricazione sui più deboli. L’ambizione e la negligenza in nome di una presunzione onnipotente muovono sdegno e sgomento nel lettore e nel protagonista che si trova in preda ad una vertigine morale e fisica, di fronte alle dimensioni ciclopiche di questo progetto.
Bortoluzzi crea un amalgama convincente di piani narrativi tra i richiami all’infanzia del protagonista, al suo servizio militare, a quello dello zio che, insieme ai suoi commilitoni, fu tra i primi alpini a raggiungere i luoghi della tragedia, alla lettera della zia che descrive il boato inquietante che incrinò quella notte e il silenzio assordante del dopo.
L’autore ci dona alcune pagine estremamente introspettive e toccanti di uno scenario di guerra in tempo di pace, di decine e decine di soldati che per settimane recuperarono corpi o parti di essi, spesso resi irriconoscibili dalla furia dell’acqua e dal violento spostamento d’aria. Brandelli di vita, sepolti da metri di fango o raccolti dai rami degli alberi come frutti marcescenti.
Non rimaneva più nulla, né case, né strade, né vegetazione. Una spianata di fango e detriti e un odore tremendo che intrideva l’aria, rendendo ancora più alienante il drammatico compito di caricare cadaveri su vecchie scale a pioli, utilizzate come barelle di fortuna. Cosa resta dei sopravvissuti, degli abitanti della valle, di coloro che hanno soccorso per primi, ricevendo in cambio una retorica medaglia al valore?
I ricordi di una persona sono come un libro senza numeri di pagina", afferma l’autore, "non c’è indice, né inizio, né fine.
Ma certamente un romanzo come questo che vira nelle sue sfumature al saggio storico è in grado di fornire elementi oggettivi e di grande consapevolezza a coloro che conoscono solo di nome ciò che è stato il Vajont. Per non dimenticare “i sommersi e i salvati”, per comprendere quanto sia di vitale importanza fermare certi meccanismi prima che giungano al collasso. Per dare un senso a quell’immota angoscia che si respira ancora in quei luoghi e che porta con sé i nomi e le vite di 1910 persone, di cui 487 bambini.
Alle 22:39 del 9 ottobre 1963 si staccò dalla costa del Monte Toc una frana lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra che franò rovinosamente nell’invaso. Un’onda di circa 50 milioni di metri cubi di acqua scavalcò il ciglio della diga, rimasta intatta, precipitando nella stretta valle sottostante.
Erto, Casso, Longarone e tante altre borgate tra pordenonese e bellunese vennero spazzate via dalla furia delle acque e dell’onda d’urto, di intensità stimata come doppia rispetto a quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima.
Metà delle vittime che si trovavano all’aperto furono polverizzate e di loro non si rinvenne traccia.
Il saldatore del Vajont
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