Il segreto di Manet
- Autore: Franco Rella
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Bompiani
- Anno di pubblicazione: 2017
“Ci sono opere d’arte, libri, poemi, quadri, brani musicali, che colpiscono, e che ci lasciano una sorta di inquietudine, come se qualcosa fosse rimasto in sospeso, o come se ci avessero comunicato una oscura ossessione, che in essi si è depositata e che li ha forse contaminati”.
Partendo da questa premessa e spinto da uno straordinario saggio di Georges Bataille, scrittore, antropologo e filosofo francese, interessato ai più diversi campi della conoscenza, Franco Rella, filosofo e docente di estetica a Venezia, dà inizio ad un percorso di approfondimento su un artista di cui non aveva mai scritto prima, nel suo “Il segreto di Manet” (Bompiani, 2017).
“Quando ho cominciato a guardarlo ancora una volta, di nuovo, quando ho cominciato a scriverne, mi sono reso conto che in realtà il segreto di Manet era sempre rimasto nel fondo del mio sguardo, e che aveva segnato il mio rapporto con l’arte e con artisti anche molto distanti da lui. Bataille mi ha permesso di guardare a Manet con occhi stranieri”.
Il titolo è dovuto non solo al fatto che a Manet è dedicata la parte più importante ed estesa del saggio, ma anche al fatto che il suo “segreto” ha spinto l’autore verso il segreto degli altri artisti che compaiono, dunque, insieme a lui.
Un segreto che verrà svelato solo in parte e che, anzi, rimanda ad altri segreti, ancora più profondi ed insondabili.
Secondo George Bataille, nel suo “La pittura di Manet”, è l’Olympia a svelare ai nostri occhi il segreto di Manet e, una volta scoperto, ne troveremo ovunque le tracce.
Infatti, ciò che in primo luogo ha colpito Rella nei quadri di Manet, sono gli occhi e gli sguardi dei suoi ritratti, che provocano, come dice Bataille, un malaise, una sensazione di malessere.
Non è un caso che nel catalogo degli insulti che hanno accompagnato e commentato l’esibizione pubblica dell’Olympia di Manet al Salon del 1865, emergono diversi riferimenti alla morte.
Un critico che si firma Ego, su Le monde illustré descrive Olympia con il corpo che “ha il colore livido di un cadavere esposto alla morgue”. Si parla poi di “un cadavere esposto all’obitorio”, e della gente che
“si affolla come alla Morgue davanti all’Olympia in stato di decomposizione”.
Questi giornalisti, paradossalmente, hanno colto qualcosa facendo trasparire nelle pieghe dell’insulto un’oscura intuizione. L’inquietudine suscitata da Olympia risale al Deujener su l’herbe, e si prolunga nel nero abissale degli occhi di Berthe Morisot, nel quadro Le balcon, fino alla modella del Bar aux Folies-Bergère, dietro quel banco di marmo, che a qualcuno ha ricordato il pianale di un tavolo di obitorio:
“un nero che attrae a sé, nella sua cupa e al tempo stessa placida indifferenza”.
Solo Émile Zola ha cercato di sottrarre l’artista alla furia feroce dei detrattori, prevedendo il posto che avrebbero occupato al Louvre l’Olympia e il Déjeuner sur l’herbe.
E forse, come ringraziamento per la sua difesa, e per la difesa del suo quadro, Manet dipinge nel 1868 un ritratto dell’amico scrittore, Ritratto di Émile Zola, e pone sulla parete del suo studio un ritratto di Olympia, che al contrario dell’originale – “i suoi occhi guardano nulla, non il gatto, non la serva nera e i suoi fiori, né il presunto spettatore che qualcuno ha pensato di poter inserire nascosto nel quadro” –, piega gli occhi verso l’amico scrittore.
Tornando al reazione del pubblico al Salon, occorre ricordare che i visitatori circolavano provvisti di un libretto che indicava il soggetto dei singoli quadri: giudicare consisteva nel valutare l’adeguatezza della rappresentazione visiva all’argomento trattato.
Quale indicazione poteva avere un quadro come Olympia?
Zola è, ancora una volta, il primo a liquidare la faccenda del “soggetto”, che aveva occupato la pletora dei giornalisti e dei critici, affermando che
“il soggetto della pittura di Manet è la pittura stessa”.
Riprendendo la teoria espressa da Zola della pittura che esibisce se stessa, altri critici – oltre a Georges Bataille, vengono citati Michel Foucault e Michael Fried – hanno letto Manet in chiave “modernista”: la sua opera inaugura un’epoca in cui si tratta di far vedere la pittura, in cui la pittura si mostra per quello che è. Si tratta di
“una rottura che va oltre il merito di aver aperto la strada all’impressionismo. [...]
Per la prima volta nell’arte occidentale, almeno dal Rinascimento, almeno dal Quattrocento, si è permesso di utilizzare e di far giocare, in un certo modo, all’interno dei suoi stessi quadri, all’interno di quel che rappresentano, le proprietà materiali dello spazio su cui dipingeva”.
Manet ha rinunciato alla rappresentazione delle tre dimensioni nello spazio bidimensionale della tela ed ha così inventato
“il quadro-oggetto, il quadro come materialità, il quadro come cosa colorata illuminata da una luce esterna e davanti al quale, o attorno al quale, si sposta lo spettatore”.
Con Manet, infatti, è la luce esterna che investe il quadro, come se questa si generasse dallo sguardo dello spettatore.
Il mosaico di citazioni è arricchito dall’accostamento ad alcuni scrittori – Proust, Flaubert, Baudelaire, Balzac, Mallarmé, Valéry – e da un’analisi approfondita di alcuni dipinti dove appare evidente che in Manet “abitava la morte a cui gli altri erano diventati ciechi”: essa appare in modo sconcertante ne L’exécution de Maximilien del 1867, un quadro in cui l’artista, come spesso accade, si confronta con opere del passato, rovesciandole: in questo caso, si ispira a Goya ed è, nello stesso tempo, l’opposto del quadro di Goya.
Prima di continuare, Rella suggerisce di guardare nuovamente l’opera di Manet: l’Olympia, l’Exécution de Maximilien, il Bar aux Folies-Bergère, i tanti ritratti di Berthe Morisot, anch’essa artista.
Tutti questi ritratti, e soprattutto l’immagine de Le balcon, suggeriscono che
“mentre lo sguardo di Olympia è vuoto, è uno specchio in cui si specchia l’assenza, il nulla, gli occhi di Berthe Morisot sono come un buco nero che attrae a sé e inabissa ciò che la circonda come l’implosione di una stella. […] Occhi che sembrano fissarsi sulla scena cava, lontana e perduta, di una misteriosa tragedia. E che sembrano guardare profeticamente al terribile secolo venturo, quel Ventesimo secolo, in cui la pittura per rappresentare la realtà del proprio tempo ha dovuto disgregarsi, aprire in se stessa insanabili crepe, in un processo di profonda e drammatica defigurazione”.
Nella seconda parte, dal titolo La ferita segreta. Rembrandt e Giacometti, l’autore analizza quattro testi del discusso scrittore, drammaturgo e poeta francese Jean Genet. Scritti quasi contemporaneamente, sono però legati ad esperienze fatte in anni precedenti: si tratta di due testi, due frammenti su Rembrandt, che si completano con Il funambolo e L’atelier di Alberto Giacometti.
“Lo sguardo che Rembrandt porta sulla carne che si decompone approssimandosi alla morte, è lo sguardo che si porta sulle figure “sfigurate” di Giacometti. In Giacometti e in Rembrandt, come nell’artista del filo, il funambolo, c’è quella solitudine abissale, in cui l’uomo si riduce a ciò che è in lui più irriducibile, a quella solitudine in cui scopre di essere equivalente ad ogni altro uomo, nel momento stesso in cui con la sua arte si pone in una sorta di esilio dalla normalità, quasi fosse proprio la condizione dell’esilio a dargli quella veggenza. In tutti e quattro i testi compare il tema del deserto, della solitudine, di una ferita, quella ferita profonda, che, come leggeremo più avanti, ogni uomo custodisce dentro di sé...”.
La terza parte, All’ombra della montagna. Il segreto delle cose, è dedicata invece a Rainer Maria Rilke ed all’incontro di “questo immenso poeta con un immenso pittore, con Cézanne”, come testimoniato dalle lettere scritte alla moglie Clara nell’ottobre del 1907.
Un incontro che ha lasciato un segno nella vita di Rilke, tanto che a lungo, fino alla fine, egli ha pensato di scrivere un libro su Cézanne.
Il libro non è mai stato scritto, come ci spiega Rella:
“l’incontro con Cézanne era stato per lui una esperienza decisiva, così grande, che probabilmente egli non si è mai sentito in grado di affrontarla in un libro, ma il suo impatto attraversa per intero la sua opera e tocca in profondità la poesia dei Sonetti e delle Elegie che sono tra i grandi monumenti poetici del Ventesimo secolo”.
Nel quarto capitolo, Corvi e volti. Van Gogh, l’analisi procede attraverso l’accostamento fra Van Gogh e Antonin Artaud, commediografo, attore teatrale, scrittore e regista teatrale francese, la cui esistenza è stata segnata dai molti anni trascorsi rinchiuso in manicomio.
Due eventi hanno portano Artaud a scrivere il saggio Van Gogh il suicidato dalla società nei primi mesi dei 1947: il libro di François-Joachim J. Beer “Du démon de Van Gogh”, in cui, evidentemente, è centrale la questione della follia di Van Gogh, e la mostra che si è aperta nel gennaio di quello stesso anno all’Orangerie di Parigi, in cui sono presenti molti dipinti di Van Gogh. Nel saggio di Artaud ritroviamo osservazioni molto acute sul rapporto tra il fratello Theo e il dottor Gachet, cui era stato affidato Vincent, su molti altri aspetti del “Caso Van Gogh” e sui quadri presenti nella mostra all’Orangerie ed altri ancora che aveva potuto vedere nei libri dedicati al pittore olandese.
In particolare, Campo di grano con corvi, che viene letto più volte, anche in questo caso, per “tentarne il segreto”.
Con A margine. Micrologie, una serie di riferimenti ad autori, artisti, luoghi e dipinti, alcuni dei quali già citati – da Theodor W. Adorno che scrive di Beckett, a Balthus e Marcel Duchamp e i loro specchi; finestre, camere da letto, morte, potere, ritratti e autoritratti e paesaggi… – si conclude il saggio di Franco Rella: un viaggio che l’autore ha intrapreso con molti “compagni”, tutti interessati al segreto dell’opera d’arte, la cui forza dirompente viene colta appieno solo attraverso le parole di grandi scrittori.
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