Il superlativo di amare
- Autore: Sergio Garufi
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Ponte alle Grazie
- Anno di pubblicazione: 2014
Il secondo romanzo di Sergio Garufi è veramente un bel libro, maturo, stilisticamente riuscito pur nell’alternarsi fra un registro colloquiale, pieno di forme espressive del quotidiano, ed un altro, più alto, letterariamente complesso e pieno di emozionanti evocazioni.
Lo scenario in cui il racconto è collocato è una parte di Roma nord, tra i quartieri borghesi di Prati e Flaminio, ma con sconfinamenti nel centro storico e nella cittadina umbra di Bevagna, paese natale del protagonista, il cinquantenne Gino, uno scrittore/traduttore che sta lavorando alla traduzione dell’epistolario di Julio Cortázar, il grande scrittore argentino, poi naturalizzato francese.
Gino vive solo, in un piccolo disordinato appartamento, con la sola compagnia del cane Tito, suo muto compagno che lo aiuta a scandire le giornate: le uscite nel quartiere per i bisogni del cane si alternano alle visite saltuarie di Monica, una donna sposata con la quale intrattiene da tempo un’ondivaga relazione, la capatina alla libreria Koob e le chiacchiere con l’amica libraia, l’amicizia di lunghissima data con Martino, un intellettuale blasé che lavora al Partito democratico ma sa tutto di letteratura.
Tuttavia la vita di Gino sembra priva di prospettive, dato che il guadagno che gli verrà dalla traduzione è misero, il conto in banca è sempre in rosso e i lavoretti precari come sceneggiatore in Rai non sono certo una soluzione soddisfacente. L’incontro con una quarantenne sportiva, Stella, conosciuta durante una noiosa presentazione al Rotary, sembra cambiare in parte il corso della storia: pian piano i due si avvicinano sempre di più e, tra incertezze e gelosie, diversità di gusti e di aspettative, la loro storia sembra finalmente decollare.
Un insolito incontro con una scrittrice inglese, che vive da sempre a Roma e che cerca di investire il proprio denaro, molto, in una fondazione culturale, premio letterario o festival, coinvolge suo malgrado Gino nel progetto di cui dovrà farsi promotore ed ideatore; dopo l’improvvisa morte della mamma ottantenne nella casa natale a Bevagna, Gino percepisce fino in fondo la sua completa solitudine e decide che con Stella potrà avere un futuro.
Succedono molte altre cose ne Il superlativo di amare (Ponte Alle Grazie, 2014), che non anticipo, ma che somigliano molto all’imprevedibilità della vita che molti di noi devono fronteggiare.
Il romanzo mette in scena l’attaccamento e/o il desiderio di distacco dalla propria origine, la nostalgia per un passato che non è mai stato del tutto risolto, gli equivoci sugli affetti che sembravano duraturi e si sono rivelati effimeri se non deludenti, le difficoltà che si incontrano nell’innamorarsi da adulti, il difficile mestiere dello scrittore, incapace di guadagnarsi da vivere con il proprio talento; Garufi di talento ne ha molto, come si può notare in alcune pagine in cui è più evidente la consapevolezza della sua vocazione di scrittore:
“… Lì capii che la funzione delle storie non era solo quella dell’intrattenimento o dell’evasione, ma qualcosa di ben più profondo e necessario, quasi un istinto innato, una componente del dna sviluppata e affinata da millenni di evoluzione, come se tutti noi fossimo plasmati dalle storie e queste facessero da legante tra gli esseri umani, favorendo l’immedesimazione e il coinvolgimento emotivo, la famosa empatia, l’unico antidoto contro l’egoismo e l’indifferenza!”
La funzione del letterato, del traduttore, dell’uomo di cultura vengono qui descritte in modo efficace, mentre, in altre pagine del racconto, Garufi si dilunga nel presentarci una Roma quotidiana, quasi opaca, il Ponte Milvio e i suoi chioschi all’aperto, il Bar Antonini dove si incontra spesso Francesco De Gregori, scontroso e appartato, la friggitoria in centro dove si mangia un cartoccio di baccalà fritto, il bar dell’Auditorium, il cinema Farnese che dà solo film d’essai, l’ossessiva presenza dei turisti…
“… Una città turistica, come recitano i dépliant delle agenzie, un’unica enorme città turistica, di un turismo mordi e fuggi, che a furia di morsi scrostava gli intonaci, sgretolava i fregi e spalancava voragini nei selciati, tra gli sguardi distratti dei turisti di passaggio e dei turisti residenti, questi ultimi distinguibili dai primi solo per una sorta di bestiale assuefazione, immersi tutti, gli uni e gli altri, in un teatro di rovine che avevano smarrito la dolcezza malinconica delle cose morte, ormai passate, per acquisire anch’esse la petulanza del presente”.
Pagine di denuncia sul degrado di Roma che fanno pensare ai grandi scrittori che della città hanno fatto il loro palcoscenico narrativo (Pasolini, Moravia, Morante).
Gino conta le lettere che compongono le parole e valuta se la somma dà un numero primo o uno divisibile, ha una specie di ossessione per le case dove gli scrittori hanno abitato, e trova a Parigi gli indirizzi dove ha vissuto Cortázar, organizza per Stella un complicato itinerario nel planetarium di Amelia, continua a chiamare la segreteria telefonica in cui è registrata la voce di sua madre, dopo che è mancata… Insomma ci fa seguire un itinerario mentale insolito, mai scontato, originalissimo, dove ognuno di noi può scorgere un pezzo del proprio sé più intimo, delle proprie fragilità e dei propri sogni irrisolti.
Il libro si chiude in modo imprevisto, o forse molto previsto: giudichino i lettori di questo romanzo da leggere tutto di seguito.
Il superlativo di Amare??? La risposta a pagina 107.
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