L’Inno alla gioia o Ode alla gioia è forse il componimento più celebre di Friedrich Schiller. Si tratta di un’ode composta dal celebre poeta e drammaturgo tedesco che, però, deve la sua fama soprattutto a Ludwig van Beethoven che ne selezionò alcuni brani per inserirli, insieme a un’introduzione scritta di suo pugno, nel testo della parte corale del quarto e ultimo movimento della Nona sinfonia. Anche in questo secondo caso è importante richiamare quel che avvenne dopo: la musica di Beethoven (senza le parole di Schiller), infatti, è stata adottata nel 1972 come Inno d’Europa dal Consiglio d’Europa e, successivamente, come Inno dell’Unione Europea.
Questa stessa melodia, con le sue parole, che forse noi italiani, forti del nostro Inno di Mameli, fatichiamo ancora a ricordare e a memorizzare è, invece, molto conosciuta in terra tedesca, per i due personaggi che hanno contribuito alla sua nascita, certo, ma anche perché l’Inno alla gioia e la Nona Sinfonia di Beethoven esprimono lo spirito del romanticismo, quello stesso spirito di fratellanza tra i popoli - “Abbracciatevi, moltitudini!”, recita un verso - con il quale alla stazione centrale di Monaco di Baviera vengono attualmente accolti i migranti in arrivo dall’Ungheria e dall’Austria, dopo il loro lungo viaggio.
L’Ode alla gioia di Friedrich Schiller
Friedrich Schiller (Marbach am Neckar, 10 novembre 1759 – Weimar, 9 maggio 1805) compose l’Ode alla Gioia (An die Freude) nell’estate del 1785, in una casa (divenuta ora un museo) alla periferia di Dresda e riuscì a pubblicarla, l’anno successivo, sulla rivista Thalia; anni dopo (1808) fu pubblicata una versione leggermente rivista dallo stesso Schiller, dove erano stati cambiati due versi della prima strofa e l’ultima strofa era stata omessa. Nella prima versione l’Ode alla Gioia era composta da nove strofe di otto versi ciascuna, poi ridotte a otto strofe, nella seconda versione. Ogni strofa è seguita da un ritornello di quattro versi, da intendersi come una parte corale. Ecco il testo della prima e più significativa delle strofe, con i quattro versi del ritornello:
Gioia, bella scintilla divina,
figlia dell’Eliseo,
noi entriamo ebbri e frementi,
o celeste, nel tuo tempio.
Il tuo incanto rende unito
ciò che la moda rigidamente separò,
i mendichi diventano fratelli dei principi
dove la tua ala soave freme.Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero!
Fratelli, sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.
L’ode di Schiller, caratterizzata da un grande pathos, descrive l’ideale tipicamente romantico di una società di uomini idealmente legati tra loro da un solenne vincolo di gioia e di amicizia universale.
In questo ideale è ben visibile un tema molto frequentato dalla letteratura neoclassica e romantica: il mito delle origini e dell’Età dell’Oro, un ritorno a una dimensione divina dell’essere umano stesso, idealizzata nell’Antica Grecia.
I romantici, dunque, vagheggiavano una nuova età dell’oro, ovvero una riaffermazione della libertà e della fraternità umana, che coincideva con un ritorno agli ideali della Grecia Antica e che si concretizzava in un’esaltazione di tutti i valori dello spirito.
Questo concetto si comprende meglio se ricordiamo che il romanticismo mise in atto un recupero dei valori rinascimentali, fu così la stagione di un nuovo umanesimo dove si fece sempre più evidente la necessità di riconquistare una perduta integrità dell’uomo. Ciò faceva di poeti, filosofi e drammaturghi dell’antica Grecia dei modelli supremi da imitare e faceva auspicare l’avvento di uno stato di natura inteso non tanto come una barbarie selvaggia e primitiva ma come una dimensione mitica, un’Arcadia dove la natura divinizzata si identificava con l’Ideale (con il principio primo, con Dio, potremmo dire, semplificando) e dove l’uomo, in pieno accordo con la società, avrebbe potuto attuare un’armonia universale che, come Friedrich Hölderlin afferma in “Iperione”, avrebbe realizzato un rinnovamento dell’umanità e avrebbe segnato l’inizio di una nuova storia del mondo.
L’Inno alla gioia di Beethoven
L’Ode alla Gioia di Friedrich Schiller, che già in età romantica raggiunse vasta fama, fu musicata anche da altri compositori. Tra di essi ricordiamo: Franz Schubert (1815), con il Lied An die Freude (D 189) per voce e piano; Pjotr Iljitsch Tschaikowski (1865), con un componimento per voci soliste, coro e orchestra, in traduzione russa; Pietro Mascagni (1882), con una cantata Alla gioia, su testo italiano di Andrea Maffei e Johann Strauss II con il valzer Seid umschlungen, Millionen! (1892).
Per comprendere perché Ludwig van Beethoven scelse di inserire alcuni stralci dell’Ode di Schiller nella parte finale della sua Nona Sinfonia occorre porre alcune premesse relative alla formazione e alla poetica del grande compositore tedesco, per coglierne, poi, le scelte formali.
Frutto di una lunga gestazione, durata più di otto anni, la Nona Sinfonia in re minore, ultimo dei grandi capolavori sinfonici di Beethoven, venne presentata per la prima volta al 29 Aprile del 1823 al Teatro di Porta Carinzia a Vienna, dove il compositore risiedeva già dal 1792.
Prima che a Vienna, Beethoven aveva risieduto a Bonn, città troppo angusta e provinciale per soddisfare le sue aspirazioni dove però ebbe la fortuna di conoscere il compositore e organista Cristian Gottlobb, che impiegò poco a comprendere il talento e la sensibilità umana e artistica di Beethoven e, per questo, lo introdusse alla vita culturale cittadina.
Beethoven si avvicinò così a poeti quali Goethe e Schiller e a filosofi come Herder e Kant: da quest’ultimo comprese la sacralità della legge morale e dell’imperativo categorico che porta l’uomo spiritualmente libero, alla pratica della Virtù e del Bene.
La formazione culturale di Beethoven consente di cogliere a pieno l’intima contraddizione che segna la sua personalità dove si fronteggiano una fervida e tumultuosa fantasia e l’esigenza profonda di una razionalità superiore, che si sposa ad un codice etico che, pur avendo ascendenze del tutto laiche, assume comunque un valore sacrale.
La sua stessa attività artistica era vissuta e praticata come fosse un’alta missione sociale e morale, una modalità per servire l’umanità e una pratica del tutto aliena da compromessi e capace di infondergli una profonda motivazione.
All’ideale etico derivato da Kant, vanno associati anche motivi propri del movimento dello Sturm und Drang, come il culto della libertà, l’insofferenza per ogni forma di dipendenza servile, una visione della vita conflittuale e sofferta, anche sempre sostenuta da un amore incoercibile per il Vero e per il Bello.
Beethoven come molti altri suoi illustri contemporanei - Novalis, Jean Paul Richter, Wackenroder, Hoffmann, Schopenhauer – considerò la musica come l’arte più nobile ed elevata, il punto di convergenza di tutte le altre arti, con la quale era possibile sondare le più alte sfere dello spirito ed esprimere l’inesprimibile.
La musica diventa quindi per Beethoven non solo una passione privata, ma anche la modalità per esprimere e realizzare la sua missione artistica, e al contempo etica, l’attività che gli dava conforto nel disordine della sua vita e forza nella drammatica condizione di sordità progressiva e irreversibile che lo colse dai 25 anni di età.
Solo l’amore per il genere umano e per la musica, che ben presto divenne per Beethoven l’unica vera religione della sua vita, gli permisero di scampare a pulsioni suicide, di sublimare la sofferenza fisica e psichica e di concepire i suoi più grandi capolavori che nacquero all’insegna della solitudine e della grandezza di spirito.
Oltre che nella musica strumentale, nella liederistica e nella cameristica, la complessa personalità di Beethoven trovò la sua espressione più compiuta e più alta nella nella musica sinfonica: le sue nove Sinfonie, che lo impegnarono negli anni compresi tra il 1800 e il 1832 esprimono la forza esplosiva ed innovativa della sua energia musicale e dischiudono un universo di suoni, dove il mondo interiore di Beethoven si dispiega in tutta la sua complessità.
La Nona ed ultima sinfonia, concepita nella commovente tonalità del re minore, è da considerarsi come un capolavoro assoluto, come la sintesi suprema di valori etici e di sentimenti profondissimi.
L’innovatività di Beethoven è evidente nel superamento dei confini tra i generi musicali: mai nessuno, prima di Beethoven aveva osato introdurre in una composizione sinfonica quattro voci soliste e un coro di uomini e donne. Con un’operazione oltremodo audace Beethoven affidò ai solisti e al coro il compito di chiudere il suo possente lavoro sinfonico, nel quale inserì alcune strofe dell’Inno alla Gioia di Schiller che tanto sentiva vicino per la complessità del suo mondo spirituale.
Questa scelta va spiegata con motivazioni che non solo esclusivamente stilistiche e musicali: integrare la sinfonia con le parole di un componimento di Schiller significava inserire dei contenuti ideologici che, attraverso un testo scritto, mostravano chiaramente ed esplicitamente gli ideali morali che animavano Beethoven: l’aspirazione alla fratellanza universale tra gli uomini in nome del
comune dolore, il superamento della sofferenza in una superiore Armonia del Cosmo e il fondamento della Gioia sull’amore per un Padre Celeste che non ha nome.
Emerge qui, tanto nella sinfonia di Beethoven che nei versi di Schiller, un profondo anelito all’Assoluto e il desiderio e di conquistare valori immortali di Grandezza e di Fede che lo avvicinano a Dio. Si tratta di un elemento tanto rivelatore quanto, allo stesso tempo ambiguo, che ha fatto credere a molti che Beethoven fosse massone e che anche Schiller, se non proprio membro della Massoneria, fosse un convinto fiancheggiatore dell’ideale massonico.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Inno alla gioia: dall’ode di Schiller alla musica di Beethoven
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C’è un’imprecisione, nel periodo che parla delle nove sinfonie di Beethoven, là dove si dice che esse impegnarono l’autore dal 1800 al 1832. Va corretto ii periodo: ...dal 1800 fino alla sua morte ( che è avvenuta qualche anno prima del 1832).
Grazie per la Vs. attenzione.
G. B.