Bruno Nacci ha curato classici della letteratura francese, si è occupato in particolare di Blaise Pascal, di cui ha scritto il saggio biografico La quarta vigilia. Gli ultimi anni di Blaise Pascal (La Scuola di Pitagora, 2014). Ha scritto il noir storico L’assassinio della Signora di Praslin (Archinto, 2000), cronaca di un fatto di sangue che sconvolse l’aristocrazia parigina nella prima metà dell’Ottocento. Con Laura Bosio ha scritto i romanzi storici Per seguire la mia stella (Guanda, 2017), sulla vita della poetessa lucchese del Cinquecento Chiara Matraini, e La casa degli uccelli (Guanda, 2020), che racconta un fosco episodio avvenuto durante la Rivoluzione francese nel periodo del Grande Terrore. Ha pubblicato le raccolte di racconti La vita a pezzi (Solfanelli, 2018) e Dopo l’innocenza (Solfanelli, 2019), tranches de vie di inquiete solitudini urbane.
Da fine settembre è in libreria con Destini. La fatalità del male (Ares, 2020).
- Attraverso quale percorso di studi è arrivato a occuparsi di letteratura e in che modo l’ambiente familiare e sociale in cui è cresciuto ha assecondato i suoi interessi culturali?
Come molti, sono sempre stato attratto dalla letteratura fin da bambino, quando passavo interi pomeriggi ad ascoltare racconti recitati alla radio e poi li ripetevo a mia mamma. E ho trascorso ogni momento libero a leggere. Ecc. Niente di particolarmente originale. In casa mia non c’erano libri, o pochissimi. Ma mio padre ha sempre assecondato la mia inclinazione prendendo in prestito presso la società in cui lavorava le serie di Salgari. Anche in questo, credo di avere avuto una precoce attrazione per la letteratura, ma non poi così rara.
- Quali autori hanno avuto un ruolo preponderante nel plasmare la sua disposizione intellettuale ed etica?
La letteratura greca ha avuto un peso predominante, e in seguito i grandi pensatori da Montaigne a Leopardi. Ho amato gli scrittori russi e francesi, che mi aprivano la mente sui temi dell’esistenza ma lasciavano anche trasparire l’esistenza di altri mondi, oltre a quello piccolo borghese in cui ero nato.
- Cosa le ha lasciato in eredità la sua lunga esperienza di insegnante? Come giudica lo stato attuale delle istituzioni scolastiche italiane?
Sarebbe meglio chiedere se ho lasciato in eredità qualcosa io ai miei studenti… Ma sì, al di là delle banalità che si possono dire al proposito, credo di essermi fatto degli amici devoti nel corso degli anni. Ho sempre considerato la scuola come un luogo di amicizia, senza inutili confusioni di ruoli. Non voglio giudicare la scuola di oggi. Invecchiando si contrae una brutta malattia, che consiste nel cogliere del presente solo gli aspetti negativi paragonandoli a quelli positivi del passato. Finché ci saranno giovani e adulti che si occupano di loro, la scuola sarà sempre la scuola, cambieranno i modi, le leggi, i regolamenti, ma… Per il resto, gli incapaci c’erano una volta e ci sono anche adesso. Auguro a ogni ragazzo di trovare sulla sua strada un autentico maestro, come è capitato a me, che è il bene più prezioso che si possa desiderare.
- In un volume del 2014 ha compiuto un’indagine sul carattere degli italiani, aldilà degli stereotipi e delle retoriche. Nel periodo difficile che stiamo vivendo, il suo giudizio sul nostro paese rimane ancora sostanzialmente positivo? E vale anche per ciò che riguarda la politica, la cultura, l’universo dei media?
Allora, con Laura Bosio, avevamo cercato di dare voce, dall’unità a oggi, all’Italia nascosta, quella che non ruba, che non vive di esibizioni pacchiane, il contraltare insomma dell’italiano furbo e cialtrone reso magistralmente da Alberto Sordi e tanti altri registi e attori della commedia all’italiana. Quell’Italia c’è, l’altra Italia appunto. Fatta di serietà, buon senso, capacità di guardare in modo costruttivo al bene comune. Se così non fosse, il nostro paese sarebbe scomparso da tempo. Purtroppo l’avvento dei cosiddetti social, la presenza ossessiva della televisione anche come veicolo di prodotti che vengono da lontano, e un certo degrado dei costumi, non in senso moralistico, ma morale, appanna lo sforzo di chi sa mantenere la schiena diritta e cercare soluzioni positive. Faccio mia la riflessione di Musil, secondo cui la differenza tra il mondo di ieri e quello di oggi non consiste nel fatto che in quello di ieri ci fossero meno stupidi che in quello di oggi, ma che un tempo a nessuno sarebbe venuto in mente di dire che uno stupido è una persona intelligente o di valore.
- Nel passare dalla traduzione e curatela di classici alla scrittura personale, quali difficoltà o supporti ha trovato?
La domanda avrebbe senso se io avessi effettivamente seguito un percorso cronologico. Ma così non è. Ho sempre affiancato al lavoro letterario e editoriale la ricerca della scrittura, le due passioni sono andate parallelamente. Però è vero che la traduzione, in particolare, mi ha insegnato molte cose. Seguire passo passo i grandi scrittori, significa affinare la capacità di esprimere con precisione l’esperienza e i sentimenti, con la massima sobrietà. Ciò che mi colpiva e mi colpisce ancora, è l’economia di mezzi espressivi dei maestri. Non so bene cosa sia lo stile, ma ciascuno di loro trova la sua strada nel rigore e nel controllo assoluto della lingua, che vuol dire poi anche del pensiero.
- Il suo ultimo libro affronta il problema del male nelle sue origini, scopi, conseguenze. Si tratta di un tema che ricorre anche in altre sue opere di narrativa? Unde malum, si chiedeva Agostino. E potremmo aggiungere, cur malum? A questa domanda che l’umanità si pone da sempre è riuscito a dare una risposta che esuli dal campo strettamente religioso?
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Non ho alcuna pretesa di dare una risposta chiara ed esaustiva. Sia in La vita a pezzi che in Dopo l’innocenza, le precedenti raccolte di racconti, mi sono sforzato di comporre una specie di fenomenologia quotidiana del male, descrivendolo nelle minime pieghe di vite comuni, del tutto anonime. In quest’ultima raccolta ho scelto invece di prendere esempi grandi, noti, perché, come osservava Platone, nelle cose grandi puoi vedere meglio riflesse quelle piccole. E soprattutto volevo accostare il male senza attribuirlo a forze misteriose o che per lo più non ci riguardano, come la follia o la perversione. Parlando di grandi malvagi, prima o dopo il tempo in cui si distinsero per i loro crimini, volevo alludere al fatto che non esistono mostri, e che ciascuno corre costantemente il rischio di diventare come loro.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista al professor Bruno Nacci
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