Tra i libri nella sestina finalista del Premio Strega 2024 troviamo Chi dice e chi tace (Sellerio, 2024) di Chiara Valerio.
È il giallo che non ti aspetti, un libro che ti irretisce con la trama poliziesca e poi, quasi a tradimento, ti intrappola nell’indagine interiore. Una narrazione nuova, scorrevole, agile, in cui tuttavia non mancano insondabili abissi di profondità.
La trama pone al centro una protagonista femminile indimenticabile, Vittoria, la cui vita viene passata al setaccio dalla voce narrante, Lea Russo, l’amica avvocato che non riesce ad accettare l’ingiustizia della sua scomparsa. Chiara Valerio non ci racconta la morte di Vittoria, che pure è l’epicentro della storia, la cosiddetta “causa scatenante” della narrazione; al contrario fa rivivere questa donna affascinante, tumultuosa e appassionata, fatta di contrasti, che “preferiva i sorrisi alle parole”. Nel mistero di Vittoria, nella sua presenza-assenza, in realtà è custodito anche il segreto di Lea, l’indicibile che la inquieta.
Chi dice e chi tace si sviluppa nel ritratto in chiaroscuro di due donne a confronto, capaci di dialogare nonostante siano ormai separate da una distanza invalicabile; sullo sfondo un paese da cartolina, Scauri, affacciato sul Mar Tirreno, a poca distanza da Roma, e i contrasti eterni tra città e provincia, le differenze di classe e le dicerie di paese che, una volta ripetute, diventano verità date per certe. Chi dice e chi tace è un libro filosofico mascherato attraverso l’enigma del giallo, che pone al lettore delle domande per cui forse non c’è davvero risposta. D’altronde, esiste un’unica verità? L’amore è un inganno o una forma di conoscenza? Quanto sappiamo davvero delle persone che amiamo?
Ne abbiamo parlato con Chiara Valerio in questa intervista.
- Chi dice e chi tace è il libro di Chiara Valerio che non ti aspetti. Lo definirei “un giallo non giallo”, sfugge a qualsiasi categoria di genere, non si può classificare ed è proprio questo il suo bello. È un libro sfidante. Dopo una storia di vampiri che indaga la metafisica e un saggio sulla tecnologia, com’è nata l’idea di scrivere questo libro per Sellerio?
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È nata mentre scrivevo i vampiri. Il vampiro non si muove senza la sua terra e io sono nata a Scauri, dove è ambientato Chi dice e chi tace, e ho pensato pure – per la vecchia insidiosa abitudine a far discendere certe tesi da certe ipotesi – che mentre scrivevo un romanzo polifonico in tempo fratto, volevo scrivere un romanzo per voce sola in tempo continuo.
Dove però la continuità non fosse data solo dal fatto che il romanzo comincia un venerdì e finisce il lunedì della settimana successiva, dopo otto notti, ma anche dall’evidenza che la memoria, il ricordo, non interrompono il tempo, lo fanno più spesso, e rendono più vischioso il suo scorrere.
- La mia impressione è che a muovere la narrazione di Chi dice e chi tace sia una forma di inquietudine esistenziale. L’indagine non è esteriore, è soprattutto interiore, come se ci fossero due verità distinte: una verità fisica e una verità filosofica. Alla fine si ha l’impressione che sia la seconda quella che conta di più. Anche dal suo punto di vista esistono due livelli di verità? In tal caso, quale è più importante?
Io non penso che esista la verità e che dunque esistano i livelli. Penso che ciascuno abbia la propria verità e che l’esercizio, pratico e sentimentale, sia quello di incastrare, fino a dove è possibile, la nostra verità con quella degli altri.
Esistono cioè i punti di vista con gli errori, ineliminabili, che i punti di vista si portano dietro. Tutti dicono la verità, la dice chi dice e la dice chi tace, e la realtà della morte di Vittoria Basile, per essere tale, deve contenerle tutte, anche le verità che si contraddicono. Non tutti i punti di vista sono uguali e valgono allo stesso modo, ma esistono. E di questa esistenza Lea Russo dovrà tenere conto. Secondo me ci riesce, nonostante non si ritrovi in una situazione comoda.
- Mi ha colpito la scelta di ambientare il libro negli anni Novanta, un’epoca analogica, non digitale. L’assenza di tecnologia ammanta la narrazione di una patina nostalgica, sembra rallentare il tempo, come se cercasse di “fissare il passato”. Dobbiamo interpretare questa scelta narrativa come un rimpianto, oppure sottintende una precisa critica alla nostra società e ai suoi ritmi frenetici?
Mi pare che gli anni Novanta siano l’ultima epoca che, grazie a istanze politiche, ha considerato la collettività, la comunità come possibilità di sopravvivenza. Poi, a un certo punto, di certo con l’avvento della tecnologia, e di certo con lo sfarinamento dell’istruzione come motore di coesione sociale, tutto è cambiato e sembra che tenere per il sé e non per il noi sia l’unica possibilità di sopravvivenza. Non credo sia nostalgia, o lo è nella misura in cui esiste la nostalgia perché esiste il tempo, ed esiste il tempo perché ci siamo inventati il modo di misurarlo, e per inventarlo abbiamo dovuto immaginare le successioni numeriche – a partire da 1, 2, 3, 4, 5, ... Insomma, se nostalgia è perché gli esseri umani sono fatti della stessa sostanza del tempo che è “immaginazione”.
- Il personaggio di Vittoria è il baricentro del libro. Riesce a stregare tanto la protagonista quanto il lettore. Eppure si ha l’impressione che in questa figura ci sia sempre qualcosa che ci sfugge. Alla fine, per quanto amata e adorata, rimane inconoscibile. È un modo per dire, paradossalmente, che l’amore non è conoscenza?
Conosciamo solo perché amiamo, non credo ci sia altro modo di definire l’amore. Testa, pelle, organi sono strumenti di conoscenza, certe volte senza ritorno, anche. Vittoria è inconoscibile perché non possiamo fare altro che ripetere ciò che fanno tutti gli altri personaggi del romanzo e cioè immaginare Vittoria. Il romanzo si apre con Vittoria che è morta nella vasca e comincia perché Vittoria è morta nella vasca. Vittoria è come un fenomeno atmosferico, un paesaggio che rallegra e rende tristi perché c’era prima degli scauresi e ci sarà dopo, e penso che funzioni così anche per chi legge. Per me che leggo, sicuro. L’ho capito adesso che da scrittrice del libro ne sono diventata lettrice.
- La narrazione si regge sui contrasti: il primo è quello tra città e provincia, a un certo punto scrive “pare che Scauri e Roma stiano su due continenti diversi”, da cui si dipanano le differenze sociali e culturali. La differenza di classe è un tema che attraversa l’intera storia e viene poi ben rappresentato dalla storia del gatto egizio, che viene raccontata con la leggerezza di una barzelletta; ma sottintende qualcosa di importante. Il gatto egizio che costa un milione e infine viene rubato ci dice, di fatto, che non esiste davvero una condizione di privilegio? Oppure è la metafora di una lotta di classe ineliminabile?
Spero che questo romanzo non voglia essere metafora di niente. I romanzi mi piacciono perché non vogliono essere metafore di niente, ma chi li legge può decidere che siano metafora, sineddoche o metonimia, o litote o ossimoro o hapax (il candidato aggiunga metafore a caso) di una cosa o di un’altra. Che la classe sociale sia l’unica differenza di razza in una specie che non ha razze, lo credo profondamente e credo anche di aver scritto sempre intorno a questo tarlo. Romanzi, saggi e anche sms. Forse bisognerà passare ai muri, prima o poi. Da bambina scrivevo sui muri, poi ho smesso.
- Scauri, il suo paese di origine, fa da sfondo a questo libro, ma diventa anche protagonista. La provincia, in queste pagine, diventa il centro. Per lei la provincia è qualcosa a cui tornare o qualcosa da cui fuggire?
È il posto dove sono nata, che mi ha formato, che mi ha esercitato, che mi ha schiacciato, e mi ha reso ciò che sono. Non è né buona né cattiva, è uno stato ed è un tempo. Esercita alla crudele verità che cerchiamo di negare con i selfie e cioè che esiste il nostro sguardo su noi stessi, ma esiste anche lo sguardo degli altri su noi stessi.
- Il libro inizia come un giallo, ma la trama poliziesca sembra infine sbiadire, perdere importanza. Mi ha ricordato “l’interessante per mezzo” cui si appellava Manzoni; l’altra categoria manzoniana era “il vero per soggetto”. Questa è una storia che parla della vita e della morte, ci offre un ritratto al contempo privato e sociale. Nella nota finale scrive che “tutto è mischiato, frainteso, inventato, mentito” e si premura di specificare “Scauri esiste”. Qual è il confine tra invenzione e menzogna? E per lei, come scrittrice, qual è lo scopo del narrare?
Io scrivo per capire delle cose senza dovermele spiegare. Scrivo narrativa perché penso che il romanzo e il racconto siano le forme più affidabili di speculazione sull’umano. Scrivo perché mi diverto quando scrivo. Mi sembra di poter fare con la penna o la tastiera quello che facevo da bambina per strada e sulla spiaggia, e cioè tuffi e capriole. So d’altronde, perché ho letto Flegonte di Tralle, che il realismo è un genere che ha le sue regole, e dunque parlare minutamente di strade e vie e negozi e lidi e bagni e piazze che sono calpestabili induce, prima in me che scrivo, e poi in chi legge, l’idea che i personaggi esistono davvero. Il realismo è il genere che consente l’immedesimazione e il fraintendimento dell’immedesimazione grazie a trompe-l’oeil, inganni, paraventi, cose così, macchinette del caffè svitate, strofinacci riposti, la marca di una bibita.
- Il titolo Chi dice e chi tace ci suggerisce che i silenzi sono importanti tanto quanto le parole. Implica una sorta di comparazione, di uguaglianza, eppure alla fine scopriamo che i silenzi forse hanno più peso delle parole.
Quindi per riprendere il titolo, “Chi dice e chi tace”, lei, Chiara Valerio, da quale parte ha deciso di stare?
Da quella del conte Mosca di Stendhal. Non dire niente. Però ancora non ci sono arrivata eh. Diciamo che mi piacerebbe arrivare al conte Mosca.
Recensione del libro
Chi dice e chi tace
di Chiara Valerio
Alla vigilia della finale del Premio Strega 2024 la competizione si fa serrata, il duello finale è tra Chiara Valerio e Donatella Di Pietrantonio, chi vincerà?
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Chiara Valerio, finalista al Premio Strega 2024
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