“L’assassinio di Florence Nightingale Shore” rappresenta il primo romanzo di Jessica Fellowes, un giallo ambientato in Gran Bretagna tra il 1920 e il 1921, il primo di una serie dal titolo I delitti Mitford.
La trama prende il via da un fatto realmente accaduto e si sviluppa in diverse direzioni: innanzitutto, la vita di una giovane di umili origini, Louisa, che cerca di costruirsi una nuova esistenza entrando a servizio di una famiglia aristocratica, i Mitford. Poi, naturalmente, le indagini, condotte, parallelamente e in modo complementare, da Louisa e Guy, un agente della polizia ferroviaria, entrambi decisi a risolvere il caso.
Non mancano, infine, i riferimenti alle sofferenze, fisiche e psichiche, patite durante la Prima Guerra Mondiale, dai soldati nelle trincee di Ypres, colpiti dalle bombe e dal gas e ad una società scossa dall’esperienza della guerra, dove sono in atto importanti cambiamenti, soprattutto nell’ambito dell’emancipazione femminile.
Abbiamo incontrato Jessica Fellowes per un’intervista che approfondisce alcuni aspetti del suo romanzo.
- Vorrei cominciare con una domanda che forse le fanno in tanti, ovvero con un riferimento allo zio, Jullian Fellowes, noto scrittore, ideatore della serie televisiva di successo Downton Abbey e premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale del film Gosford Park: portare lo stesso cognome ha creato delle aspettative, l’ha, in qualche modo avvantaggiata, o è stato, al contrario, un peso?
In realtà non mi fanno questa domanda così di frequente. Devo dire che posso solo ringraziare di aver avuto lui come zio, di aver avuto la possibilità e la fortuna di lavorare con lui, dato che Downton Abbey è stato un successo assolutamente strepitoso e questo mi ha permesso di vivere un’esperienza straordinaria. Mi ha aperto porte e mi ha dato opportunità che forse non avrei avuto – o avrei dovuto lavorare più duramente per ottenerle. Quindi, sicuramente – come dire?! - seguire la scia di mio zio è stato importante, tuttavia devo dimostrare anch’io di valere qualcosa. Certo, mi sono detta che comunque dopo il primo libro scritto su Downton Abbey non me ne avrebbero chiesti altri. Invece mi è stato chiesto di scriverne un secondo, un terzo e un quarto: mi sono rassicurata sulle mie possibilità. E poi c’è ovviamente la dimensione umana, nel senso che da mio zio ho sempre imparato tanto sia per quanto riguarda, ad esempio, l’approccio all’attività lavorativa, il suo senso etico e anche la sua grande capacità di comprendere gli altri.
- Tutti i libri scritti prima di questo romanzo, sono non-fiction e basati proprio sulla serie televisiva di successo Downton Abbey: è stata un’esperienza che le è comunque servita per arrivare a scrivere un romanzo vero e proprio?
Mi è stato utile fare questa precedente esperienza più che altro perché mi ha fatto capire che, per fortuna, sarei arrivata in fondo al libro, che potevo farcela. Questo è l’elemento più significativo. Devo dire però che si tratta di due esperienza molto diversa. Mi affascina – quasi mi sorprende – il fatto che appartengano allo stesso ambito editoriale, ma è un po’ come dipingere un quadro o scolpire: fanno parte di ambiti creativi simili, ma sono profondamente differenti.
Quando scrivi qualcosa che non è fiction, è un’esperienza collaborativa, lavori con altre persone, non è un’esperienza personale. Invece, per questo romanzo, mi sono quasi sentita un po’ sola, ho trovato difficile affrontare certi punti nodali, essere da sola davanti al lavoro che dovevo svolgere, perché alla fine sono una persona come tutte le altre. La gente magari chissà che cosa si immagina e invece io sono qui con la mia penna a scrivere cose difficili...
- Com’è nata l’idea di questa serie, strutturata in sei romanzi e con protagoniste le sorelle Mitford?
Non posso ahimè prendermi tutto il merito di questa idea – le confesso – perché effettivamente è stato un editore che mi ha proposto: “Perché non scrivi un romanzo che si intitoli – in inglese – The Mitford murders (I delitti Mitford), ambientato dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, un periodo dorato, un giallo, quindi con un delitto da risolvere e che abbia come protagoniste le sorelle Mitford?”
Allora, le sorelle Mitford, io le conoscevo, perché avevo letto tanto – adoro gli anni Venti – quindi il periodo era proprio perfetto per me: era il connubio ideale per riuscire a scrivere quello che poi è diventato il mio romanzo. Inoltre, c’è il fatto di avere sei sorelle, che crescono, che diventano donne nel periodo tra le due guerre, cosa che, da un lato, permette di abbracciare la dimensione seriale in modo del tutto naturale, dall’altra, mi permette di soffermarmi su un periodo che non posso fare a meno di considerare la “mia epoca”, perché mi piace moltissimo.
- In effetti, nella Nota storica, lei si augura che “nel mescolare i fatti alla fantasia riusciamo a capire meglio le persone del passato, a ricordarle meglio e a rendere loro omaggio”: per quanto mi riguarda, non conoscevo le vicende né della famiglia Midford, né dell’infermiera di guerra Florence Nightingale Shore e il suo romanzo è stato un pretesto per documentarmi. Quali sono state, invece, le sue fonti?
Inizialmente, il mio editore mi ha mandato un articolo di giornale che parlava dell’omicidio dell’infermiera Shore, nel caso potesse tornarmi utile. Allora ho cominciato a indagare, a raccogliere tutto il materiale possibile da poter utilizzare, nel frattempo mi sono venute in mente diverse idee ed ho trovato anche quello che, potenzialmente poteva essere il collegamento fra le sorelle Mitford e, appunto Florence Nightingale Shore. Da lì, ho scritto in modo naturale: c’è stata quindi prima l’idea della storia, poi i vari collegamenti e i fatti che si svolgono nel libro.
Nella mia ricerca mi sono basata per lo più su articoli di giornale, perché ce ne sono veramente tanti. È stato un omicidio, un fatto di cronaca che ha scosso l’opinione pubblica: una donna uccisa sul treno, un’infermiera di guerra, molto conosciuta e coraggiosa. Oltre agli articoli di giornale, ho trovato un solo libro che raccontava di lei e del suo caso. Il fatto che ci fosse solo un libro, mi ha quasi sorpreso e, a maggior ragione, sono molto lieta di averla come protagonista del mio romanzo perché era una donna che meritava sicuramente di veder riconosciuti i suoi tanti pregi.
- In un certo senso, ha riempito gli spazi vuoti della Storia...
È interessante quello che dice, perché è proprio così che vedo il mio lavoro, il lavoro dello scrittore: c’è la Storia, i fatti storici, la realtà e poi ci sono, appunto, dei piccoli spazi tra questi fatti ed è li che io vado a insinuarmi per cercare di raccontare una storia.
- Fra i vari temi che lei affronta – quando c’è di mezzo un omicidio è meglio non anticipare nulla della trama – ci vuol parlare dell’amicizia fra due ragazze di ceti sociali così diversi?
Trovo molto curioso il fatto che, in generale, si tenda a guardare indietro e a vedere i personaggi del passato, giudicandoli in maniera anche molto severa. E quindi si tende a dire che una certa persona, nata in un certo ceto sociale, con un certo tipo di background si dovesse comportare in un certo modo. Io non credo sia vero, perché non siamo figure statiche, ritagliate, per così dire, nel cartone: siamo tutti persone. I personaggi del passato sono persone che vivono, che provano emozioni, che sbagliano, che combinano i loro pasticci, che si innamorano della persona sbagliata, condividono una serie di aspetti che caratterizzano tutti gli individui.
E, in questo senso, Louisa e Nancy rappresentano benissimo il fatto che, pur provenendo da mondi completamente diversi, due ragazze possano avere molte più cose che le uniscono di quante le dividono.
- Fra i personaggi negativi, invece, lo zio Stephen incute timore nonostante la sua assenza o, forse, proprio a causa della sua assenza...
Assolutamente sì, è vero: l’assenza è molto importante. La mia è stata una scelta deliberata, quella di rendere questa figura “assente e presente” nello stesso tempo, perché, effettivamente, può capitare a tutti di essere forse più preoccupati delle cose che stanno nella nostra testa, rispetto a quello che sta là fuori. Il pensiero, il timore che vive dentro di noi non corrisponde alla realtà, eppure è potente.
- Al centro del caso di omicidio ci sono Louisa e Guy: si può cogliere una differenza fra i metodi investigativi femminili e maschili?
Sicuramente, io mi sono focalizzata su questi due personaggi, Guy e Louisa, perché volevo trovare due protagonisti che fungessero da accompagnatori, per il lettore, anche negli episodi successivi della serie, dove naturalmente ci saranno le sorelle Mitford e, di volta in volta, ognuna di loro avrà una rilevanza più significativa in ciascuno dei vari libri, ma con due figure che potessero unificare l’intero corso.
E, certo, c’è questa dinamica uomo-donna: spero di non essere scaduta nello stereotipo, però effettivamente ho cercato di soffermarmi sulle differenze, sui diversi approcci, non solo in generale, ma anche relativamente a quel periodo, quando i rapporti uomo-donna erano in evoluzione.
- Può darci qualche altra anticipazione sui prossimi libri della serie?
In effetti, anche gli altri romanzi saranno ambientati in Inghilterra e, in particolare, il prossimo avrà il titolo Bright young death che riprende Bright young things, una definizione che, con un gioco di parole, si riferisce a un gruppo di ragazzi dell’alta società inglese che negli anni Venti conduceva una vita molto bohémienne. Proprio per questo riferimento, nello specifico, la vicenda si svolgerà a Londra.
- Per concludere, ho letto che qualcuno l’ha paragona ad Agatha Christie: che cosa ne pensa?
Di Agatha Christie, in realtà, non ho mai letto tantissimo, ma mi fa ovviamente grande piacere essere associata a lei. Però penso che nei libri di Agatha Christie ci sia più un approccio all’enigma, al mistero da risolvere, e che siano meno incentrati sulle dinamiche dei personaggi, mentre nel mio libro è esattamente il contrario.
Però, pensandoci adesso, mi verrebbe da dire che non mi spiacerebbe se la mia Louisa diventasse una specie di Miss Marple!
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Jessica Fellowes, autrice di “L’assassinio di Florence Nightingale Shore”
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