Paola Giorgia ha posto per noi alcune domande a Paolo Miorandi, autore di Nannetti. La polvere delle parole, edito da Exòrma edizioni, per indagare il legame tra lo scrittore e il suo protagonista, Oreste Fernando Nannetti.
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Un libro scritto sul muro di un ospedale psichiatrico: la storia di Oreste Fernando Nannetti
Paolo Miorandi (autore per Exòrma anche di L’unica notte che abbiamo e Verso il bianco) ha una voce narrante delicata e sensibile, anche nella crudezza dei risvolti esistenziali che descrive.
Dal loro dialogo è venuta fuori un’intervista trasparente e sentita, per la quale ringraziamo ancora Paolo Miorandi.
- La prima domanda è un passaggio obbligato per iniziare a comprendere il lavoro di racconto del libro. Com’è stato l’incontro con Oreste Fernando Nannetti? Nel libro accenna qualcosa, che qui non sveliamo per non togliere la gioia della lettura, ma qual è stato, se c’è stato, il particolare che ha fatto scattare la molla per raccontare questa storia, facendole capire che Nannetti andava conosciuto anche grazie alle sue parole? Cosa ha dato in più alla figura di quest’uomo la sua narrazione?
Più o meno 25 anni fa mi è capitato tra le mani un libro dalla copertina azzurra pubblicato nel 1985 da un editore della provincia di Pisa. Il libro era diviso in due parti. La prima mostrava una serie di fotografie in bianco e nero di un muro coperto di strani segni che solo a uno sguardo attento si trasformavano in lettere e parole. Nella seconda parte del libro erano invece riportate le trascrizioni di quei segni incisi sul muro.
Ma è stato soltanto qualche anno dopo, quando sono entrato anch’io nel cortile del padiglione Ferri, nell’ex ospedale psichiatrico di Volterra, che la vicenda di Nannetti è entrata nella mia vita. Ricordo ancora che era una giornata d’inverno fredda e ventosa, con una luce grigia e ombre spesse. Dall’intensa emozione provata davanti a quel muro allora cosparso interamente da cicatrici di parole è sorto il desiderio di raccogliere le tracce dell’uomo che le aveva lasciate e delle persone che lo avevano conosciuto.
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C’è però un altro particolare che collegherei al fatto di volerne scrivere. Il mio libro precedente si intitolava Ospiti ed era una specie di taccuino di viaggio nelle ultime stazioni della vita, le case di riposo, gli hospice, i reparti per pazienti inguaribili. Erano sguardi e testimonianze in forma di scarne terzine l’ultima delle quali diceva: "Perché non cantano queste mura? Questi corridoi non hanno voce? Una mano di bianco ed è finita”. Il muro di Nannetti in fondo era la risposta che il destino o il caso aveva dato alla mia invocazione. Su quel muro infatti era ancora tenacemente aggrappata la voce di chi da lì era passato.
- Durante i colloqui con Aldo Trafeli, cosa ha avuto la sensazione che l’abbia legato in modo così confidenziale a Nannetti, durante la sua permanenza al Manicomio di Volterra? E che ricordo ha lei di quest’uomo fondamentale nella ricostruzione del personaggio Nannetti?
Di Aldo Trafeli ricordo soprattutto la gentilezza e la grande disponibilità. Si capiva che la storia di Nannetti lo appassionava, che l’aveva fatta diventare parte della sua vita, una specie di suo compito esistenziale. Per questo amava raccontarla a quanti gliela chiedevano, e lo faceva senza fretta tornando ogni volta nel cortile del Ferri per mostrare il graffito, tradurne alcuni passi davanti al visitatore, ripetere quanto gli aveva detto Nannetti a proposito di quello che scriveva. Un giorno mi disse che si era avvicinato al Nannetti perché non tollerava di vederlo sempre così solo, inascoltato, scansato da tutti. Probabilmente, però, aveva anche colto la bellezza di quanto Nannetti stava facendo e qui forse è entrata in gioco una sensibilità affinata dal fatto di avere frequentato la scuola d’arte.
- Nel libro mi ha colpito particolarmente il passo in cui sostiene che Basaglia e la sua opera, così importante e decisiva per l’eliminazione delle strutture manicomiali come erano concepite in Italia fino agli anni ’80, oggi non sono conosciuti anche dagli addetti ai lavori. Parliamo dunque di giovani psicologi e psichiatri che ignorano i percorsi fatti fino a oggi nel campo della cura e del trattamento delle malattie mentali, una parte fondamentale, credo, per esercitare consapevolmente la professione al giorno d’oggi. Cosa pensa dovrebbe essere fatto per colmare questa lacuna, e in quale direzione?
La vicenda che ha visto Franco Basaglia tra i suoi protagonisti ha caratterizzato, tra il ’68 e il ’78, una stagione di grande cambiamento, un decennio di battaglie civili, di accesi dibattiti, di azioni innovative; un’azione rivoluzionaria che non solo ha dato vita alla legge 180, la legge che in Italia, caso pressoché unico nel panorama mondiale, ha posto fine a quella pratica violenta e disumana che per più di un secolo ha fatto sì che venissero internati in manicomio migliaia e migliaia di donne e uomini che non quadravano agli occhi di qualcuno, donne e uomini che si sono voluti oscurare, escludere, cancellare. E che in manicomio sono stati sottoposti alla barbarie di pratiche che la presunzione medica considerava terapeutiche: elettroshock, insulino-terapia, malaria-terapia, e, dopo la scoperta dei neurolettici, all’ottundimento chimico generosamente distribuito. Ma oltre a ciò l’azione promossa da Basaglia ha obbligato medici, psicologi, assistenti sociali ecc. a interrogarsi sullo statuto delle loro discipline e sul fatto che le loro azioni stanno sempre — così si era soliti dire allora — sul filo di una lama, in instabile equilibrio tra l’essere pratiche di liberazione o di repressione; che ogni gesto quotidiano che si compie a contatto con la sofferenza dell’altro può diventare dunque un esercizio di dominio, di disconoscimento della voce dell’altro, oppure può essere un contributo, magari minuscolo, a tendere l’orecchio verso di essa e stare in ascolto. Questo direi a quei giovani professionisti che talvolta mi sembrano dediti solo ad affinare il loro apparato tecnico operativo invece che fermarsi ogni tanto a riflettere sul senso delle loro azioni.
- Sfogliando un altro suo libro, L’unica notte che abbiamo, ed è stata forte anche lì la sensazione che lei voglia dare voce a chi non ce l’ha o l’ha persa; a chi è invisibile o è passato ad a un altro livello di esistenza. È così? È questa l’ossessione dello scrittore Paolo Miorandi? O è la memoria, il rischio che si perda, la sua ossessione?
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Ne L’unica notte che abbiamo ho scritto che forse il più umano tra i compiti umani è prendere in consegna la voce di chi non ha più voce e custodirla per un po’ offrendole la propria voce, per quanto flebile essa sia. Io scrivo di cose che stanno sparendo o che sono sparite e di cui rimangono soltanto tracce, la polvere delle parole incise da Nannetti sul muro del padiglione Ferri, le vecchie foto che la protagonista de L’unica notte che abbiamo osserva per ricostruire la storia della sua famiglia, perfino le labili orme che Robert Walser ha lasciato sulla neve al termine della sua ultima passeggiata. Penso però che la scrittura non serva a trattenere le cose, ma sia piuttosto un modo per imparare a lasciarle andare, tenendole in mano giusto il tempo di un ultimo prolungato sguardo o di un addio. Le parole sono per me la scia che si lasciano indietro le persone e le cose che entrano nella mia vita, che rimangono con me per un attimo o per molti anni e che, prima o poi, sono destinate ad abbandonarla.
- È molto bello leggere i suoi libri perché, pur nella brevità, sono densi di avvenimenti, di riflessioni, di vita e mantengono un ritmo lento. Lei regala al lettore il tempo di leggere e tra le sue pagine, malgrado i contenuti raccontino spesso inquietudini, il lettore ha la giusta quiete per ritrovarsi, immedesimarsi, chiudere gli occhi e lasciarsi andare alla parola. È questo il compito che vuole dare alla sua letteratura? Regalare tempo al lettore? Paolo Miorandi vuole dirci che la lettura è ascolto? È attenzione all’altro, alla sua storia, che sia fiction o non fiction?
È vero, cerco una scrittura che inviti il lettore ad aspettare, a procedere senza fretta, e anche, se necessario, a perdersi un poco, a far vacillare l’idea che tutto debba essere immediatamente comprensibile. Ne L’unica notte che abbiamo, ad esempio, ho deliberatamente cercato di complicare la sintassi chiedendo al lettore di sostare tra le righe, di tornare un poco indietro, di imboccare strade secondarie. Oppure, in Nannetti, passo da una voce all’altra, spesso a metà della frase, senza segnalarlo al lettore. Se vuole è l’espressione della mia personale contrarietà nei confronti di quella che in questo tempo sembra essere l’idea prevalente di narrazione, linearità, semplicità, riduzione della complessità. Talvolta sembra che conti quasi solo la storia, la trama, i personaggi e non il corpo a corpo con le parole che la scrittura, o almeno una certa idea di scrittura, richiede di compiere.
- Nei suoi libri, spesso si lascia ispirare dal binomio fotografia/immagine-scrittura, in Verso il bianco, dove racconta la storia di un altro internato, Robert Walser rinchiuso nel manicomio di Herisau, Svizzera, il punto di partenza è una fotografia in bianco e nero del protagonista, in Nannetti. La polvere delle parole, le fotografie di Francesco Pernigo si accostano alle sue parole, e in L’unica notte che abbiamo comunque la storia parte da una scatola di fotografie: cosa l’affascina di questa interazione tra immagine e parola? Dove trova il punto di contatto tra questi due mezzi di comunicazione?
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Le fotografie, in fondo, sono frammenti di tempo che la carta ha conservato; contengono gesti, sorrisi, lacrime che diventano la traccia di intere esistenze. Sono come i relitti che il mare fa arrivare sulla costa, il più delle volte semplici pezzi di legno che però contengono ancora la memoria del veliero, della barca o della scialuppa di salvataggio che un tempo sono stati, ed evocano anche i viaggi, gli approdi, le tempeste che hanno attraversato. Per la protagonista de L’unica notte sono dunque finestre, aperture verso vite che sembravano perdute, ma che la cura del suo sguardo può far tornare. Anche le fotografie fanno parte della scia che le cose e le persone si lasciano indietro. In Nannetti, ho chiesto a Francesco Pernigo di documentare con le sue foto questa scia che si allontana, una progressiva sparizione, il crollare dei muri del manicomio e il diventare polvere delle parole che vi erano incise.
- La struttura dei suoi libri è sempre molto particolare e non casuale visto che è il modo in cui il lettore si sente molto coinvolto dalla lettura. In Verso il bianco la narrazione procede a ritroso; in Nannetti. La polvere delle parole i capitoli della narrazione vera e propria con narratore esterno si alternano a quelli in cui è come se sentissimo Nannetti parlare in prima persona, se lei entrasse nei suoi pensieri e desse loro voce, lasciandoli sconclusionati, istintivi, grezzi. Come ha fatto a realizzare, in modo così perfetto, questo processo di immedesimazione che questo tipo di struttura valorizza moltissimo?
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Sì, è vero, penso che la ricerca della grana delle voci e di un’architettura che le possa tenere assieme in un modo non convenzionale valorizzandone la particolarità sia l’aspetto più importante del mio modo di intendere la scrittura. La vicenda di Nannetti, ad esempio, è stata narrata anche da altri, talvolta con un semplice taglio biografico, altre volte tentando spericolate interpretazioni psicologiche o artistiche. Quello che ho fatto io è stato leggere più volte le trascrizioni di Trafeli fino a imparare quasi a memoria intere pagine del libro di Nannetti. Solo così, ho pensato, la mia scrittura ne avrebbe potuto evocare il ritmo e la melodia, e avrebbe potuto versare nelle pagine la consistenza materiale delle parole incise sul muro.
- Nel libro lei racconta che in un dialogo tra Nannetti e Aldo Trafeli, quando quest’ultimo inizia a trascrivere le parole incise sul muro del manicomio in un libro, poi uscito nel 1985 assieme alle foto dei suoi graffiti, Nannetti, a conoscenza della notizia, reagì rifiutando il libro e affermando che fosse un falso perché quello vero fosse quello sul muro del Padiglione Ferri. Se potesse dire oggi qualcosa per spiegare il suo libro a Oreste Fernando Nannetti, cosa gli direbbe?
Gli direi che aveva ragione, che ogni traduzione è sempre inevitabilmente un tradimento e che la parola scritta non può far certo percepire la fatica, l’ostinazione, la passione dei suoi tagli nella materia. Ma che, d’altro canto, tradurre è inevitabile, è il nostro compito di umani, prendere le parole e portarle da un posto all’altro, da un tempo all’altro. Gli direi anche che, a differenza dei muri, i libri sono piccoli e leggeri e che per questo possono viaggiare, stare nelle tasche delle persone, riposare vicino ai loro letti. E che spesso una pagina scritta è la sola cosa che resta di qualcosa che se n’è andato o che se ne sta andando, anche se, come un muro, sembrava essere così solido e imponente da dare l’impressione di poter durare per sempre.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Io scrivo di cose che stanno sparendo”: intervista a Paolo Miorandi
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