Rachel Kadish è la pluripremiata autrice di molti libri di successo; il suo ultimo romanzo, Il peso dell’inchiostro (Neri Pozza), narra la storia di Ester Velasquez, una giovane ebrea che, giunta a Londra da Amsterdam nel 1657, ha vissuto con il rabbino cieco HaCoen Mendes e lo ha assistito nella sua opera di diffusione della conoscenza fra gli ebrei. Nel fare questo, ha potuto studiare materie giudicate innaturali per il sesso femminile e, manifestando un’innata avidità di apprendere e di interrogare, ha deviato sempre più dal sentiero che era stato tracciato per lei.
La vicenda, che ha come sfondo una Londra dove diverse comunità religiose convivono non senza difficoltà, colpita dalla peste e distrutta dall’incendio del 1666, viene ricostruita attraverso una serie di documenti ritrovati per caso in un’antica dimora del XVII secolo a Richmond, e studiati da Helen Watt, una studiosa di storia ebraica, colpita dal Parkinson e prossima alla pensione, aiutata da Aaron Levy, un giovane studioso ebreo americano: pur manifestando diversità non solo caratteriali e generazionali, essi condividono la passione per la Storia e, soprattutto, il pressante bisogno di approfondire la conoscenza di una donna con cui hanno, nonostante i secoli che li separano, molto in comune.
Qual è, secondo lei, il fascino dei romanzi come il suo che parlano di libri e, più in generale, della scrittura?
Posso dire che ho sempre amato moltissimo i romanzi storici perché mi permettono di camminare veramente per le strade di un certo periodo del passato, di vivere quella che era la vita di una certa epoca. Per me c’è qualcosa che in realtà non cambia, per quanto riguarda l’importanza della scrittura, ovvero la libertà che ci arriva, come persone, dalla possibilità del parlare, del mettere su carta i propri pensieri – oggi forse più su computer. Questo mi ha sempre colpita molto. E anche, ovviamente, i pericoli che accompagnano l’atto della scrittura, se ci si pensa. Quindi, scrivere di documenti, di manoscritti che vengono scoperti dopo secoli, mi ricorda proprio la potenza e, al tempo stesso, il pericolo della parola scritta.
A proposito della potenza e del pericolo della parola scritta, crede che nel tempo sia cambiato il “peso dell’inchiostro”?
È una bella domanda. Penso che oggi prendiamo meno seriamente la scrittura, sia perché possiamo cancellare e possiamo riscrivere molto più facilmente, sia perché ci sono ormai tante forme di scrittura con cui possiamo comunicare. Però, non penso che il peso della scrittura sia cambiato. O, meglio, penso che le nostre parole abbiano sempre conseguenze molto più grandi di quello che ci possiamo immaginare, ancora maggiormente oggi, nell’era di Twitter. Le nostre parole sembrano non valere nulla, non essere importanti, visto che tutto avviene così in fretta. Invece, un nostro pensiero può raggiungere, in tempi molto più brevi, molte più persone di quanto non si riuscisse a fare in passato. Quindi, forse, alla fine, mi verrebbe da dire che il peso delle parole sia più grande oggi che in passato.
Il suo romanzo si presenta ricco di temi: dalle persecuzioni degli ebrei, alla loro vita nella Londra del 1600, dal ruolo della donna, ai diversi aspetti della vita accademica fino a concezioni filosofiche su Dio e sulla natura. C’è però un’idea centrale intorno alla quale ha costruito poi la trama?
Sì, ed è una domanda fatta da Olive Schreiner: “Se Shakespeare avesse avuto una sorella di eguale talento, quale sarebbe stato il suo destino?” La risposta è semplice: “Sarebbe morta giovane e senza aver scritto una sola parola”. Naturalmente questa era la sorte più probabile per una donna in quel periodo, ma io comunque mi sono chiesta che cosa avrebbe potuto fare con quel tipo di mente, di intelligenza audace, se non voleva morire senza aver scritto neanche una parola. E che cosa avrebbe dovuto fare per avere una voce, contro ogni restrizione, quando tutti, intorno a lei, le dicono: “siediti, comportati bene”? Quindi ho voluto andare indietro nel passato e pormi questa domanda, scrivendo di una comunità ebraica durante il periodo dell’Inquisizione. Siccome nella mia famiglia, da parte di mia madre, ci sono sopravvissuti all’Olocausto, so quanto sia ancora più difficile avere questo tipo di voce per una donna, quando è la Storia stessa che cerca di impedirglielo.
Ambienti, situazioni, personaggi sono descritti in modo nitido e preciso, a dimostrazione di una sua eccezionale capacità di delineare i più piccoli dettagli: come è giunta a questo risultato?
Intanto, grazie! Sono stata a Londra, ma ovviamente la Londra di cui scrivo non c’è più, perché è bruciata completamente nel grande incendio del 1666. Perciò mi sono dedicata alla ricerca: ho osservato migliaia di mappe diverse e quadri, esaminato libri di storia… E ciò che ho imparato è che puoi conoscere cento dettagli, ma di quei cento, poi ne utilizzerai due o tre, ovvero quelli che danno veramente credibilità a ciò che vuoi scrivere. Se pretendi di utilizzarli tutti e cento, la storia diventa un po’ troppo “affollata”. Quindi, ho passato moltissimo tempo a leggere, cercando di capire quali dettagli erano più “viscerali” e potevano colpire maggiormente il lettore.
Nella “Nota dell’Autrice”, lei precisa che, al di là delle figure storiche realmente esistite, i personaggi e gli avvenimenti di Il peso dell’inchiostro sono del tutto immaginari; si è però ispirata a qualcuno?
Ci penso… Magari un dettaglio ogni tanto mi arrivava come spunto dalla vita reale, però questi personaggi sono se stessi e basta. Ho incontrato effettivamente persone un po’ come Aaron, un po’ come Helen, e il mio editor negli Stati Uniti mi ha detto, ad esempio, che se Ester fosse viva, oggi sarebbe Ruth Bader Ginsburg, che è un membro della Corte Suprema degli Stati Uniti – cosa che mi ha molto divertita – però, come dicevo, nella mia testa sono solo se stessi.
Il mondo accademico che lei descrive è piuttosto competitivo: dipende dalla sua diretta esperienza?
Io insegno, però part-time, perciò non sono direttamente coinvolta nei giochi politici, tuttavia sento molte cose che raccontano gli altri…
Ester è una donna che lotta e che si impone per la propria emancipazione, sa leggere e scrivere. Non poteva bastare? Come mai ha voluto aggiungere le parti relative alla filosofia ed agli scambi con i pensatori dell’epoca?
Beh, le dirò, me lo sono chiesta anch’io il motivo per cui ho deciso di aggiungere l’elemento filosofico, dato che, così facendo mi sono complicata moltissimo la vita! Prima di questo libro non avevo studiato filosofia e non ero a mio agio con questa materia, ma credo che per gli scrittori – per me – sia importante andare oltre e non scrivere solo di personaggi “come me”. Se avessi un personaggio che rispecchia fedelmente i miei punti di forza e le mie debolezze, finirei per scrivere sempre lo stesso libro, mille volte. Quindi mi sono costretta ad imparare, ad esempio, la terminologia che qualcuno che ha a che fare con la filosofia utilizzerebbe. E’ capitato, in occasione di eventi letterari, dopo la lettura di alcuni estratti del libro, che qualcuno mi chiedesse: “Ma le domande che vengono poste, sono le tue o di Ester?” La prima volta mi sono messa a ridere: “Io non ho nessuna domanda filosofica da porre!” Poi, invece, mi sono resa conto che forse tutte le domande di Ester sono anche mie, in un certo senso. In un mondo in cui succedono cose terribili, semplicemente io non uso un linguaggio filosofico per esprimere queste domande, lei invece sì.
Si può dire che Ester sia per Aaron ed Helen Ester una sorta di riflesso delle rispettive situazioni esistenziali, in cui ritrovare se stessi?
E’ un punto di vista molto interessante. Penso che sia vero: Ester ha per loro una grande valenza personale. Ho sempre voluto che la storia fosse una conversazione – ovviamente una “conversazione univoca” perché Ester non riesce a sentire i suoi interlocutori –, e quando Helen e Aaron ascoltano la voce di Ester, scoprendo la sua vita, ebbene, questo cambia le loro vite. Tutti e tre condividono quindi qualcosa: si guardano attorno e cercano di capire, in modo diverso e più profondo, che cosa questo mondo vuol dire loro.
Pensa che questa condivisione sia possibile anche per i lettori? Questa potrebbe essere una sua aspettativa?
In effetti spero che sia così! Ci sono dei lettori, talvolta, che mi raccontano di sentire un legame affettivo con questi personaggi e questo mi rende molto grata nei loro confronti. Lo trovo quasi ironico che un libro che è stato scritto in grande isolamento – quando scrivi un libro sei da sola, io ho passato anni a scriverlo in una situazione di solitudine, perché è questo che richiede il mio lavoro – in realtà diventa un compagno che stimola la conversazione con altre persone che io non conosco e che non conoscerò mai. Sicuramente è una magia, secondo me, tutto questo è magico.
Per tornare alla sua scrittura, rispetto a una narrazione lineare, come ha potuto gestire una trama con continui salti temporali?
Effettivamente non so perché mi sono lanciata in questo tipo di narrazione così complicata. Però, devo dire che non avevo pianificato nulla prima di cominciare, dato che improvviso quando scrivo.
Tuttavia, quello che sentivo era che queste storie non potevano essere slegate l’una dall’altra. In base alla mia esperienza, le storie del passato saltano fuori quando meno te lo aspetti e devi reagire. La Storia e il passato sono – come dire? – intrecciati, ed è così che ho scritto questo libro. Mi ci è voluto tanto tempo, ho dovuto andare indietro più volte a controllare le tempistiche, la linea temporale, in modo da far sì che tutti gli eventi del passato riflettessero poi quello che succede nel presente e viceversa. Ma, sì, certamente è un po’ complicato.
Che cosa si prova, alla fine, a trovarsi in mano un libro così bello, così completo e dettagliato?
Quando ho finito, mi sono mancati tantissimo i personaggi e il fatto di non dover più scrivere di loro. Però, mentre parlo con lei del libro, è come se fossi andata a trovarli, e quindi la ringrazio per questa opportunità. Ma ora devo scrivere qualcos’altro e innamorarmi di altri personaggi.
La descrizione di Ester e della sua fatica per imporsi e per poter avere accesso alla conoscenza mi ha fatto pensare a quanto, nel tempo, l’umanità abbia perso in termini di contributi femminili: crede si riuscirà mai a colmare questa mancanza?
E’ così tanto quello che è andato perduto, che non possiamo più recuperare. Sono convinta che ci siano state donne che operavano sotto mentite spoglie maschili ed erano talmente brave a nascondersi dietro un’identità che non sapremo mai la verità. Nel campo della musica, ad esempio, sappiamo che buona parte della produzione di Felix Mendelssohn era in realtà di sua sorella Fanny.
Però, quello su cui cerco di soffermarmi è la necessità di valorizzare ciò che c’è stato: possiamo almeno recuperare quello che è possibile recuperare.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Rachel Kadish, autrice di Il peso dell’inchiostro
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