Romana Petri vive a Roma. Scrittrice affermata, ha pubblicato molti libri, tradotti in varie lingue, tra cui inglese, francese, spagnolo, olandese, tedesco e portoghese.
Tra le sue opere, citiamo: Ovunque io sia (Beat, 2008), Ti spiego (Beat, 2010), Le serenate del Ciclone (Neri Pozza, 2015, premio Super Mondello e Mondello Giovani). O ancora i più recenti Il mio cane del Klondike (Neri Pozza, 2017) e Pranzi di Famiglia (Neri Pozza, 2019, Premio The Bridge).
Lo scorso febbraio, per Mondadori, è uscito il suo ultimo libro: Figlio del lupo.
Vincenzo Mazzaccaro, collaboratore di Sololibri.net che l’ha intervistata, preferisce un libro su tutti: Giorni di spasimato amore (Longanesi, 2014). La storia racconta di Antonio, che vive a Napoli, innamorato folle di Lucia. La trama in pillole non può dare la misura del grande impegno e dedizione che Romana Petri mette in ogni suo libro.
Traduttrice e critico, Petri collabora per "Io donna", "La Stampa", il "Venerdì di Repubblica" e il "Corriere della Sera".
- Prima di parlare del suo libro, signora Petri, ha notizie di come va il libro on line? Crede sia stato giusto chiudere le librerie? Come sta affrontando questa pandemia, ammesso che lei voglia dire qualcosa in merito?
Non ho idea di come stiano andando le vendite online. Le case editrici stanno rimandando le uscite dei libri, è tutto fermo. Le librerie sono chiuse come quasi tutto. Non si possono fare differenze. A chiunque lavori nel mondo dell’editoria avrebbe fatto piacere e comodo che fossero rimaste aperte. Io ho avuto un libro che è uscito sei giorni prima che esplodesse il virus. Me ne sono fatta una ragione. Sto affrontando bene questo periodo di reclusione. Io sono una reclusa di natura. Leggo, scrivo, faccio molta ginnastica. Non cucino e non pulisco ossessivamente la casa. Gioco con il cane.
- Il suo Figlio del Lupo non è una biografia, ma un romanzo che racconta fatti e persone vere. Una scelta o una casualità?
Non ho mai scritto biografie in vita mia e credo che non ne scriverò. Questo è un romanzo biografico. Nel senso che ho preso una vita vera e l’ho romanzata dandole pensieri, emozioni, parole, dialoghi, anima, tendini, nervi e sudore. Niente di casuale. Era proprio in questa versione che lo avevo immaginato fin da pagina uno.
- Jack London era un uomo che per tanti anni ha fatto i lavori più disparati, prima di essere solo uno scrittore. Come spiega questa sua carica vitale e intellettuale?
Non me la spiego. Era un uomo vulcanico che voleva essere una meteora e non uno stoppino. Era il suo mondo a fremergli dentro. Era fatto così, era estremo e gli piaceva estremizzare. Era tanta vita, ma anche tanta morte. Non aveva mezze misure. Non sapeva dosarsi. Ha vissuto solo 40, ma a leggerli sembrano il triplo.
- Nel suo libro c’è la descrizione di terre, di luoghi, di spazi aperti che poco si conciliano con lo scrittore chiuso in casa a creare. Invece tutto si tiene. Come ha impostato da subito il lavoro di questo romanzo?
Di scrittori che hanno vissuto parte della loro vita in avventure ce ne sono molti. Certo, si scrive seduti a casa. Ma nulla vieta a uno scrittore di essere anche un grande viaggiatore. Ce ne sono tantissimi. C’è il tempo per tutto. La vita non è avara per chi sa farne buon uso. Per lui, poi, le due cose erano imprescindibili. Nella vita si va a periodi, per assestamenti. La più grande virtù di un essere umano è quella di sapersi adattare. Lui voleva vivere intensamente, divorare tutto. sapeva che chi non divora viene divorato. In ogni caso non è la morte a ucciderci, ma la vita.
- Jack London sembra diventare opaco senza le sue donne: la madre, l’amata sorella, i suoi amori più importanti. Perché così bisognoso di donne nella sua vita?
Credo invece che sia stato lui ad aver illuminato la vita degli altri. Era carismatico, fosforescente e di forte personalità. Era tutto tranne che opaco e gli altri lo guardavano come fosse un dio. Erano gli altri ad avere bisogno di lui. Ma lui, per quanto brillasse di luce propria era anche tragicamente attirato dalla fine, dall’abbandono, dall’idea di lascito. Era un uomo solo, come ogni grande artista. E sapeva stare da solo, come quasi tutti gli artisti. Si vive in compagnia, ma si crea da soli. Se Jack London era opaco, mi chiedo cosa sia la maggioranza, invisibile?
- Perché leggendo Figlio del lupo si ha l’impressione che senza la madre Flora Wellman, forse, Jack London sarebbe stato un uomo ordinario?
Si può usare qualsiasi aggettivo per Jack London tranne che ordinario. Un ragazzo che fugge, che fa straordinarie avventure, che se ne va dall’altra parte del mondo appena adolescente, per pura sete di conoscere. Un ragazzo visionario, che ha capito di essere uno scrittore quando era ancora semianalfabeta, perché le cose che aveva da raccontare gli si manifestavano attraversando chissà quali intercapedini. Questo non toglie che sua madre sia stata una donna straordinaria, una spiritista di mestiere, e antesignana anche lei perché, capendo prima di chiunque lo straordinario talento del figlio, lo spronava a non cedere. Gli diceva: Facciamo pure la fame, ma non temere, prima o poi ti si apriranno grandi porte. Sua madre è stata la sua più grande sostenitrice. Diceva di aver messo al mondo non un figlio, ma un dio. Come darle torto?
- Jack London morì giovane, avendo fatto tanti lavori e dopo avere scritto tanto e con successo. Ora ci sono uomini e donne che all’età della morte di London ancora non sanno bene che fare della propria vita. Come se lo spiega?
È passato un secolo dalla morte di London. Era tutta un’altra epoca. Quando si ripensa a quegli anni, si ha l’impressione di parlare di un mondo ancora giovane. I suoi erano i tempi dei sogni realizzabili con la forza di volontà. Oggi ci troviamo di fronte ai desideri tristi e alla più totale sfiducia nei confronti di se stessi. Un po’ come se lo spazio si fosse ristretto. E meno speranze, meno aspettative. Una vita più per sottrazione. Si fa il calcolo delle cose che non si possono fare. Perché sono diventate davvero molte.
- Crede che uno scrittore possa avere una funzione morale nella società odierna?
Può averla come non averla. Uno scrittore è la materia che tira fuori dal dominio della parola. Solo quella. London stesso era pieno di contraddizioni, che poi hanno anche rappresentato il suo meglio. Lui aveva una potenza linguistica che mai c’era stata in America prima di lui. Diciamo che la sua moralità era quella di non avere mai paura di nulla.
- In questi giorni di pandemia dove è obbligatorio stare a casa e limitare i contatti lei cosa legge? E quali scrittori citare per questi lunghi ed estenuanti pomeriggi?
Abbiamo sempre bisogno di cose diverse. Anche con i libri da leggere è così. Non esiste mai il meglio, esiste ciò di cui abbiamo bisogno in quel preciso momento. Ho letto ogni genere di scrittore e di letterature. Ma ho sempre sentito che avrei potuto tradirli da un momento all’altro. Ora, in questa clausura forzata, sento che la letteratura europea mi va un po’ stretta e mi sono trasferita nella pionieristica letteratura Americana, nelle loro grandi pianure con autori come McCarthy, McMurtry, O’Connor (che di grandi spazi non parla, ma di quelli infiniti interiori che hanno fatto di lei un autore magnifico). Tra poco comincerò a leggere Il grande cielo di Guthrie. Prima o poi tornerò in Europa. Ma non adesso.
Recensione del libro
Figlio del lupo
di Romana Petri
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: "Figlio del lupo": intervista a Romana Petri
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