

Rosalia Messina, siciliana di nascita, è autrice della raccolta di racconti Prima dell’alba e subito dopo (PerroneLab 2010), dei romanzi Più avanti di qualche passo (Città del Sole Edizioni, 2013), Marmellata d’arance (Edizioni Arianna, 2013), Gli anni d’argento (Algra, 2015) e del libro per bambini Favole a colori (Algra, 2015), l’e-book Morivamo di freddo (Durango 2016).
Ha curato la versione teatrale del romanzo Marmellata d’arance, realizzata insieme alla sorella Anna, che ha vinto il premio “L’Artigogolo 2017”, sezione “Drammaturghi esordienti” ed è stato pubblicato nella primavera del 2018, in forma monografica, dalla casa editrice Chipiuneart. Sempre nel 2018, in digitale, Rosalia Messina ha pubblicato La vera storia del gatto con gli stivali (Oakmond Publishing), rielaborazione della famosa fiaba classica; Orfeo – Andata e ritorno dal mondo delle ombre (Il Convivio), testo teatrale che ha ricevuto una segnalazione di merito al premio “Antonio Borgese”, sezione teatro, del 2018 e una al Premio “Teatro Aurelio” 2018, oltre che il premio “San Domenichino”, sezione teatro, nel 2019. L’autrice ha pubblicato nel 2019 la silloge poetica Cronache del disamore (ed. Nulla Die) e, più di recente, il breve testo teatrale inedito La madre di Donato (un monologo) ha ricevuto una segnalazione al premio Teatro Aurelio 2020.
Da dicembre è disponibile per la collana “I Libri Rossi” il romanzo La stagione dell’angelo (Chipiuneart 2020), nel quale l’autrice racconta, con delicatezza e precisione, il dramma dell’abbandono e della conseguente solitudine, che ciascuno di noi ha conosciuto, ma che è più frequente tra le persone anziane.
“Passo tante ore a guardare la televisione. La chiamo la mia scatola magica, perché mi fa sognare e mi riempie le ore. Dopo aver spazzato e lavato il pavimento, passato lo straccio umido sui mobili per togliere la polvere, rassettato cucina e bagno, di tempo me ne resta”.
Alessandra Stoppini, collaboratrice di Sololibri, ha intervistato l’autrice.
- “Chi non trova il paradiso quaggiù, non lo troverà neanche in cielo. Gli angeli stanno nella casa accanto alla nostra ovunque noi siamo”. Possiamo dire che tutto il senso del romanzo si può sintetizzare nell’esergo del volume, tratto da una citazione di Emily Dickinson?
In qualche misura sì. I miei personaggi (come le persone reali che conosco e frequento) non sono angeli né demoni e, nella mia visione laica, paradiso e inferno sono dentro ciascuno di noi, separati da un confine sottile che facilmente viene oltrepassato in entrambe le direzioni. Mentre ero alle prese con la prima stesura de La stagione dell’angelo e rileggevo, come faccio spesso, Emily Dickinson, questi versi mi colpirono, come se davvero tutto il senso della trama che stava prendendo corpo si risolvesse nel poetico invito all’apertura nei confronti del mondo, del prossimo, a cercare gli angeli nelle persone che vivono nella stanza accanto, o nel condominio che vediamo affacciandoci alla finestra. Che poi Emily Dickinson abbia trascorso la sua breve vita come una reclusa, nulla toglie alla potenza del messaggio.
- Un’anziana donna sola che non si aspetta più nulla dalla vita e una ragazza in cerca di se stessa. Tra loro un libro: l’Antologia di Spoon River, raccolta di poesie in verso libero scritta dal poeta statunitense Edgar Lee Masters. Ce ne vuole parlare?


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Elisabetta e Viola sono entrambe sole, in modo diverso, perché diverse sono le stagioni della vita che attraversano: la prima è alla fase dei bilanci, si guarda indietro e attorno con sgomento, rimugina ossessivamente pensieri malinconici e pessimisti; Viola, che ha pochi anni alle spalle e tanti dinanzi a sé, ha sogni che — come lei stessa dice — ancora non sono maturi per diventare progetti. Hanno in comune la solitudine. Una pena segreta le consuma, trascinano giornate stanche nella dolorosa contemplazione di una perdita. Poi le loro solitudini si incontrano. Nel tentativo di trovare un terreno comune con l’anziana dirimpettaia, Viola ricorre a ciò che ama e che la conforta: la poesia. Elisabetta non è una persona colta, ma la poesia può parlare davvero a tutti, in ogni essere umano può far risuonare echi offrendo la possibilità di riconoscere, in un frammento di realtà illuminato dalle parole dei poeti, il proprio dolore, i percorsi della propria vita. Viola ed Elisabetta hanno bisogno di trovare un linguaggio comune, che le aiuti a superare la differenza generazionale, di esperienza, di visione complessiva del mondo. La poesia è una sorta di esperanto, un ponte tra due persone apparentemente così distanti e che invece hanno tanto da dirsi e da darsi. Nelle brevi storie in versi di Edgar Lee Masters, nel canto appassionato di Pablo Neruda, Elisabetta sembra trovare nuove chiavi di lettura della realtà, della sua realtà di donna semplice, che alla vita non ha mai chiesto tanto e si ritrova smarrita e deprivata di ciò a cui teneva di più.
- Tutto il romanzo è attraversato da una nota di speranza. Concorda?
Sì, la capacità di intravedere, almeno per un attimo, la possibilità di un cambiamento, di credere che la vita non sia finita, finché non è davvero finita, in qualche modo accompagna gli scambi emotivi fra le due donne e accende i loro sorrisi dopo che hanno mescolato le loro lacrime.
- Quella degli anziani soli, nelle grandi città, è un’emergenza silenziosa, soprattutto in estate, quando i condomini come quello da lei descritto si svuotano. Come ricostruire reti sociali per contrastare isolamento e solitudine?
Non credo che solo gli anziani vivano in solitudine. La sentono di più, perché il loro tempo scorre più lentamente, si svuota di impegni pressanti e non siamo abituati a pensare che rallentare, contemplare, riflettere e non affannarsi non è una colpa, un marchio d’infamia. I vecchi sono invisibili, li si ascolta con sufficienza. Sono usciti dalla corrida del quotidiano, sono diventati marginali. Il loro mondo è scomparso, soppiantato da nuovi assetti nei quali non si ritrovano. Però ho visto anche tanta solitudine giovanile e confesso che la prima ispirazione per La stagione dell’angelo è nata dall’osservazione dei giovani. Ci sono sempre stati i ragazzi isolati, non popolari, che nessuno cerca e che non hanno la forza e neppure la voglia di inserirsi nel branco (il branco puntella l’identità e protegge), perché si sentono distanti dai riti e dai miti della loro generazione. Non è una novità di quest’epoca di contatti virtuali. La solitudine per scelta, la solitudine che si ama non va scoraggiata e guardata come patologica, secondo me. Essere introversi mi sembra un modo di essere, non una malattia da cui guarire. Quanto alla solitudine involontaria, quella che si subisce e si sopporta come si sopporta una prigione, posso dire che a Bologna in realtà ci sono importanti iniziative che favoriscono l’aggregazione, creando situazioni in cui le generazioni si vivono accanto. Solo per fare un esempio, il cinema in piazza Maggiore, nei mesi estivi, è un appuntamento serale in cui chi resta in città può incontrare altre persone che condividono la stessa passione, a prescindere dall’età e dal livello di istruzione.
- Uno degli effetti collaterali della pandemia da Covid-19 è la solitudine, quella di chi non ha potuto vedere i propri figli, i genitori, i compagni. La solitudine più dolorosa, però, è stata quella delle persone anziane, malate, sofferenti, che in solitudine sono morte. L’attuale emergenza sanitaria ha influito nella stesura del romanzo?
Ho iniziato a giocare con l’idea di questo libro nel 2018, ma alla scrittura vera e propria ho potuto cominciare a dedicarmi solo nell’agosto del 2019. Negli ultimi anni ho avuto ancora meno tempo del solito, per ragioni di lavoro, e scrivere una storia richiede concentrazione e metodo, almeno per quanto mi riguarda; infatti, ho scritto altro, poesie, testi teatrali, per i quali i tempi di stesura possono essere brevi e frammentari. Sono rimasta in una Bologna svuotata e torrida per poter scrivere senza distrazioni. Osservavo le vite degli altri, non soltanto degli anziani. Ho revisionato La stagione dell’angelo nell’estate del 2020, quando il Covid-19 ci ha concesso una tregua illusoria, alla quale, personalmente, non ho creduto. L’isolamento, la paura che l’altro, chiunque altro, possa contagiarci, l’abitudine a stare distanti come ci si abitua alle catastrofi, alle guerre, alla vita dopo un terremoto, pur non facendo parte della trama, hanno colorato, anche al di là delle mie intenzioni, le atmosfere della storia.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Rosalia Messina, in libreria con “La stagione dell’angelo”
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