Addentrarsi nelle storie dello scrittore Salvatore Basile è sempre un viaggio meraviglioso, che apre al lettore infinite porte verso mondi conosciuti e in cui ritrovarsi e finestre "a cielo aperto" su universi sconosciuti da assaporare all’istante.
Ogni volta si amano la celebrazione del potere che assume la Natura circostante nei confronti dell’uomo che la vive - mai così funzionale, intenso ed evocativo come in questa storia -, il tratteggio delineato dei personaggi, le loro complesse ed emozionanti dinamiche di vita, i luoghi e gli ambienti che li circondano e caratterizzano, e infine, la prosa a cui ricorre, sempre fluida, diretta e protesa verso la ricerca di suggestioni e atmosfere poetiche.
La storia della giovane, sognatrice e coraggiosa Maria Pepe, raccontata in Cinquecento catenelle d’oro (Garzanti, 2022) e dalle cui pagine trasuda tutta la potenza, solidità e delicatezza di un profondo, amorevole legame con il padre Antonio, è in grado di toccare più volte le corde dell’anima, permettendo al lettore di abbandonarsi completamente al proprio "ascolto interiore", di affidarsi alla comprensione e all’accettazione di ciò che è, di quello che desidera veramente e che sente di meritare per se stesso.
Salvatore Basile si racconta in questa piacevole e interessante intervista, come sempre senza risparmiarsi mai e confermando ancora una volta la profonda inclinazione empatica nei confronti dell’essere umano e di tutto ciò che lo circonda.
- Quando ha maturato concretamente l’idea di narrare questa storia, quale elemento o aspetto ha bussato per primo alla sua porta? L’ambientazione? Il periodo? Un personaggio specifico? Un messaggio sotteso che aveva voglia di comunicare al lettore? O forse, un oggetto?
La prima “scintilla” è arrivata anni fa, grazie alla figura di Elvira Notari, che ho scoperto tramite un’amica sceneggiatrice. Elvira Notari è stata la prima regista italiana, agli inizi del ‘900. Napoletana, ha iniziato a riprendere scene di vita quotidiana con una delle prime cineprese, poi è riuscita ad aprire una casa cinematografica, con succursale in America, fino a girare più di 100 film. È morta sola e dimenticata a Salerno, negli anni ’40. Una figura meravigliosa di donna coraggiosa e intraprendente, regista e donna in un periodo in cui alle donne erano vietate quasi tutte le strade professionali. La seconda scintilla è scattata scoprendo che nell’entroterra lucano del 1950 alcuni paesi non conoscevano l’esistenza degli specchi. Fu l’antropologo De Martino a portarne alcuni durante le sue visite di studio. Le persone cadevano in crisi mistica, nel vedere la propria immagine riflessa con tanta nitidezza. Da quel momento, ho cominciato a ragionare su come sarebbe stato, nel periodo di nascita del cinema, in una di quelle zone, venire a sapere che le "fotografie si muovono". Non il cinema in sé, quindi, ma la sua idea indefinita in un contesto nel quale perfino le fotografie erano rare, perfino sconosciute. Poi è arrivata Maria Pepe, a "raccontarmi" la sua storia.
- Interessante, a inizio libro, la scelta di citare il libro di Pinocchio, così come le parole espresse poco dopo dalla baronessa Matilde: "A questo ci penso io. Diremo una bugia. Ma vedrai che ne varrà la pena…" Si tratta di un accostamento intenzionale, che sottende a una correlazione fra le due cose? Crede che a volte sia necessario mentire, che una bugia possa salvarci o compiere del bene in qualche modo?
L’accostamento Pinocchio-bugia è una bellissima considerazione. Non è stato un accostamento volontario, ma la scrittura suggerisce correlazioni inconsce di cui ti accorgi solo a lavoro ultimato. Come in questo caso. Per quanto riguarda il mentire, credo che alcune bugie siano necessarie, in determinati frangenti. Sono dei veri e propri “salvavita”. A volte penso che, forse, mentire faccia parte del nostro istinto di sopravvivenza. Sempre che una bugia sia, appunto, salvifica e non danneggi le persone che ti sono intorno. In quel caso, credo che la bugia si tramuti in una prigione dalla quale si può uscire solo con un atto di sincerità.
- In un passaggio del testo afferma quanto possa essere pericoloso cercare di fare ciò che più ci piace, capire cosa si vuole fare veramente nella vita e fare in modo di poter conseguirlo, perché ciò potrebbe lasciarci soli contro tutto il mondo. Ritiene che questo concetto sia sempre vero? Dove pende l’ago della bilancia, secondo lei? Rappresenta uno stimolo a lottare sempre e comunque per ciò che si desidera? O piuttosto, a volte bisogna saper fare un passo indietro, fermarsi?
Credo sia un argomento delicatissimo e che non esistano regole o ricette. Sicuramente non credo di averne. Riuscire a capire cosa si vuole davvero è impresa ardua e in seguito comporta delle scelte da compiere. Scegliere è uno degli attributi dell’essere liberi. E la libertà è sempre limitata dalla nostra identità, cioè dal nome che abbiamo, dalla funzione che la società e la famiglia ci attribuiscono, dalle aspettative di tutti nei nostri confronti. Spesso, in questi frangenti, scegliere una strada che non coincide con le aspettative degli altri, ci costringe a “liberarci” della nostra identità e ad affrontare percorsi sconosciuti, da percorrere “in solitaria”. Non è facile, anzi, a volte risulta impossibile. A quel punto, credo che sia importante non dichiarare una resa totale, ma andare a esplorare quei piccoli territori di “libertà” che possiamo concederci, abituarci ad abitarli e… forse, in questo modo, si potrà poi affrontare, come ha fatto Maria Pepe, l’imprevedibile.
- "Mi sono guardata intorno e mi sono sentita sola come non mi era mai accaduto prima. Neanche i libri mi facevano compagnia, neanche le promesse che custodivano tra le pagine." Cosa si sente di dirci sul potere effettivo dei libri? Sono di più le volte che ci salvano? Quale valenza assumono le parole, le storie scritte da altri e per gli altri?
Siamo fabbricanti di storie, tutti. L’elaborazione onirica, mentre dormiamo, cos’è se non una narrazione simbolica di eventi, sensazioni, sentimenti che ci riguardano? Non potremmo mai fare a meno di storie, è il nostro organismo fisico e psichico che ne ha bisogno. Detto questo, credo che la scrittura e la lettura abbiano un potere rivoluzionario, perché stimolano l’immaginazione. E l’immaginazione elabora strategie per cambiare le cose. Anche e soprattutto quelle che non vanno, che potrebbero essere migliorate. Non è un caso se i regimi totalitari cercano di imporre limiti alla cultura e all’arte, ai libri in genere, come se ne fossero terrorizzati. E ne hanno validi motivi per la loro sopravvivenza. Oltre a questo, leggere ti consente di vivere altre vite, di fare esperienze nuove, di accrescere la mente, il ragionamento, la comprensione del reale. E, di conseguenza, di "immaginare", almeno, le vie del cambiamento. E poi, diciamolo, è uno dei grandi piaceri della vita, se hai la fortuna di capirlo.
Precipitai così nella vertigine della lettura, risucchiata dal mistero svelato dei segni e del loro contenuto, provai l’euforia del volo sulle pagine dei libri, le storie come panorami da ammirare nei minimi particolari: distese d’amore, precipizi di paura, foreste d’avventura, oceani di malinconie, cascate di risate, tramonti di struggimento e di abbandoni, grandini di baci proibiti. Ogni storia, ogni libro mi scavavano dentro e poi mi riportavano alla luce come se fossi appena rinata.
- Le confesso che mi ha colpito molto il contrasto tra le atmosfere e suggestioni "umili" - il lavoro nei campi di grano del padre mezzadro Antonio, e l’accostamento all’istruzione, alla cultura - esemplificato dalla volontà della giovane figlia Maria di imparare a leggere e scrivere. Un parallelismo vivido, una contrapposizione netta che assume diverse implicazioni, suggerisce riflessioni importanti e smuove sentimenti profondi. Sono sempre due mondi a sé, inconciliabili? O in alcuni casi possono incontrarsi e fondersi fra loro?
Ho avuto prozii contadini. Mio suocero ha fatto il contadino per tutta la vita e, ogni volta, parlare con lui, con i prozii e le prozie, ascoltare i loro racconti della terra e della vita legata a doppio filo alla terra, è stato immergermi in una cultura profonda, raffinatissima, complessa e affascinante. Erano persone non dedite alla lettura, ma possedevano comunque la capacità di osservare la vita, di decodificarla secondo parametri basati sulla tradizione, sul susseguirsi delle stagioni e del loro effetto sulla terra. E poi, soprattutto, sulla lentezza. E la lentezza è un valore che stiamo irrimediabilmente perdendo, presi nel vortice della comunicazione frenetica non solo del web ma dell’informazione audiovisiva. La conseguenza è una mancanza di approfondimento, una debolezza del linguaggio emotivo. In sintesi, credo che i due mondi siano assolutamente conciliabili e che abbiano molto da attingere, l’uno dall’altro.
- Esiste un elemento autobiografico, per esempio un ricordo specifico o un aneddoto che la riguarda da vicino, che ha scelto di riportare nella stesura di questa storia?
A 36 anni compiuti ho lasciato, di punto in bianco, un lavoro sicuro per assecondare la voglia di scrivere e di fare della scrittura la mia unica fonte di sostentamento. Tutto ciò mi fa sentire vicino, in qualche modo, a Maria e alla sua scelta finale, anche se la situazione della protagonista del romanzo era oggettivamente più difficile e pericolosa rispetto alla mia. Però mi accomuna a lei la sensazione di essere stato considerato "pazzo" dalla maggior parte delle persone che mi erano intorno (nessuno nella mia famiglia o fra i miei conoscenti lavorava in campo artistico). Lasciare un lavoro sicuro per lanciarsi nel vuoto era davvero una decisione forte, per molti versi scellerata. Credo di aver provato la stessa solitudine di Maria, ma ciò, per fortuna, non ha intaccato la determinazione, la voglia di farcela.
- Quali messaggi ha voluto veicolare attraverso il tratteggio dei vari personaggi? Ha simpatizzato maggiormente per uno di loro?
Logicamente ho simpatizzato per Maria e per i suoi tormenti, i suoi dolori. Però, dovendo scegliere un personaggio, punto su Teresa, la madre di Maria. La sua durezza, il non volersi aprire alla speranza di un futuro diverso, deriva dal dolore provato, dalla fame sofferta, da quelle prove durissime a cui erano sottoposte le donne nell’Italia rurale dell’epoca. Se c’è un messaggio da trovare è che non esistono persone da condannare a prescindere, qualunque sia il loro atteggiamento nei confronti della vita. C’è sempre una ragione, un motivo, un dolore profondo, alla radice di qualunque comportamento, anche il più condannabile a prima vista.
E allora ho capito che il dolore vero, quello più profondo, raggiunge il suo culmine quando ti mette di fronte all’impossibile, quando sbarra ogni via di fuga nel passato e assume le sembianze del presente, della realtà spietata di quelle assenze che non hanno rimedio.
- Il potere del cinema: una finestra a cielo aperto sul meraviglioso mondo che da tempo le appartiene; in qualità di sceneggiatore, cosa l’ha spinta a rappresentarlo? Perché ha sentito il bisogno di voler esplorare alcuni aspetti e dinamiche?
Il cinema ha rappresentato, a mio avviso, la più potente rivoluzione democratica di inizio ‘900, proprio perché offriva storie a tutti, anche a chi non era in grado di leggere, forniva l’immaginario visivo di altri luoghi a chi non aveva mai viaggiato. E la sensazione di viaggiare nel tempo quando andava a rappresentare epoche passate o future. Ma nella storia di Maria non volevo rappresentare il cinema in sé, bensì l’idea del cinema, la possibilità di qualcosa che era ritenuta impossibile, come "le fotografie che si muovono". Ai suoi albori, il cinema ha dato un colpo quasi mortale alla parola "impossibile", che è lo scudo dietro al quale si ripara chi non vuole che le cose possano cambiare. E continua ad avere questa funzione anche oggi, il cinema, nonostante tutto.
- Ci riveli a quale tela o dipinto accosterebbe questa toccante storia, un intenso e poetico inno alla vita e al potere dell’Arte.
Ce ne sarebbe tantissimi, di dipinti a cui accostare la storia di Maria Pepe. Ma non posso non scegliere Green Queen, il meraviglioso dipinto di Marco Grassi che impreziosisce la copertina del libro.
Cinquecento catenelle d'oro
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Salvatore Basile, in libreria con l’ultimo romanzo “Cinquecento catenelle d’oro”
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