Nel suo ultimo romanzo, “Articolo 353 del codice penale” (Neri Pozza), ambientato nella regione francese del Finistère, Bretagna, negli anni Novanta, Tanguy Viel, affronta questioni che riguardano non solo la colpa, le sue cause e le sue conseguenze, ma anche l’esercizio della giustizia, con un particolare riferimento all’articolo 353 del codice penale, ovvero
“l’intima convinzione del giudice”.
La storia è quella di una banale truffa ma Martial Kermeur ha gettato in mare e lasciato annegare, al largo del porto di Brest, il promotore immobiliare Antoine Lazenec, colpevole, fra l’altro, di aver sperperato il denaro di molti investitori.
Arrestato e portato davanti a un giudice, Kermeur ha la possibilità di ripercorrere gli avvenimenti che l’hanno condotto fin lì: per spiegare, per giustificarsi o forse solo per togliersi il peso che grava sulla sua coscienza e che non riguarda solo quest’ultimo atto criminale.
Abbiamo intervistato l’autore.
- Per una media di circa 160 pagine, tutti i suoi libri sono simili: come riesce a concentrare quello che altri esprimerebbero magari in centinaia e centinaia di pagine?
Non ho molta immaginazione nel senso che si dà comunemente a questo termine: piuttosto lavoro per immagini. Nella mia mente, una scena particolare si compone di una serie di immagini fisse, due o tre. Fatico molto a vedere una scena nel suo insieme, a fissare i dettagli, a regolare le luci su ciò che scrivo. Non riesco ad allargare lo sguardo, quindi preferisco concentrarmi su alcune scene cardine in modo da avere a disposizione alcuni elementi – un viso, un profilo, una luce, due o tre situazioni – e costruire la scena. Con questi punti cardine, creo questa sorta di linea che si snoda e racconta una storia. Da un lato, mi verrebbe da dire che lavoro per compressione, anche se, riflettendoci, è più una selezione, nel senso che, alla fine, quello che faccio è scegliere uno o due punti che riassumono, come fossero dei segni, tutti gli altri elementi.
- Per quanto riguarda la trama, aveva chiaro fin dal principio dove sarebbe arrivato, visto l’articolo del codice penale che, citato nel titolo, viene ripreso solo nell’ultima pagina?
Quando ho cominciato a scrivere, non avevo ancora il titolo e non conoscevo esattamente l’articolo del codice penale, ma avevo presente il concetto di intima convinzione – che, se vogliamo, è molto francese e rappresenta la soggettività del giudice. Sapevo anche che avrebbe avuto un ruolo di rilievo e dove tutto questo mi avrebbe portato: penso sia impossibile scrivere un libro, soprattutto con un narratore alla prima persona, senza sapere di chi è la voce che narra, quando e dove si trova, che cosa ha fatto… Tutti elementi importanti, indispensabili, ma all’inizio erano più astratti: non tutto era chiaro, ma quando mi sono lanciato sulla linea della scrittura, avevo forse tutti gli avvenimenti. Non avevo un piano, un progetto particolare da seguire, ma avevo il luogo finale da raggiungere e dove trovare la voce del narratore.
- Proprio a proposito della voce narrante, quanto c’è dell’autore in Martial Kermeur, il protagonista?
Sicuramente abbiamo molto in comune, ma non per quanto riguarda gli avvenimenti, che sono fittizi. Penso che con questo libro, più che con gli altri, ho compreso che il narratore è esattamente come un attore che trova un personaggio. Per esempio, Laurence Olivier è un fantastico Amleto e Amleto è meraviglioso, ma anche Laurence Olivier è meraviglioso, perché attraverso il ruolo di Amleto può esprimersi in un certo modo: si viene a creare una sorta di alchimia tra attore e personaggio.
La stessa cosa è successa a me e al mio personaggio. In effetti, trovare la propria voce nell’incontro fra lo scrittore e il suo personaggio è proprio questo: riuscire a trovare un equilibrio, un’intesa particolare. In questo senso, sono felice che Kermeur mi abbia dato il diritto di esprimermi in questo libro così come ho potuto fare, attraverso il suo sguardo. È un po’ quello che succede con uno strumento musicale: se funziona, con chi lo suona, si raggiunge una nota, una melodia, delle sfumature altrimenti impossibili.
- La vicenda si svolge nel 1990, ma potrebbe accadere in qualsiasi momento: perché ha scelto proprio questo periodo storico?
Quasi tutti i miei romanzi sono ambientati negli anni Ottanta e Novanta: sono molto legato a ciò che è avvenuto in quegli anni, perché mi ricordano la mia adolescenza. Forse, immergendomi in quegli anni, ritrovo uno sguardo un po’ più inquieto, una situazione psicologica particolare. È vero, la vicenda di questo libro avrebbe potuto svolgersi al giorno d’oggi, ma è anche vero che gli anni Ottanta e Novanta costituiscono l’inizio di qualche cosa, ovvero del mondo che ha cominciato a cambiare per diventare quello in cui viviamo oggi. C’è una sorta di affaticamento, di malinconia, con cui ricordiamo questi momenti gloriosi. È in quel momento che le certezze, a livello sociale e politico, hanno cominciato lentamente a sgretolarsi e grazie a Kermeur ritroviamo la nostalgia per questo tempo perduto, in cui si viveva in maniera diversa, in maniera più sana, si viveva la vita del villaggio, che poi col passare del tempo è venuta meno.
Un po’ come Pasolini guarda agli anni Settanta con la bramosia di tornare al passato: in realtà, Kermeur non ha dei rimpianti per quello che è stato, per il passato, ma sicuramente fatica a comprendere che cosa sta succedendo. Quegli anni costituiscono una sorta di snodo temporale sul quale mi soffermo. È vero, comunque, che la vicenda sarebbe potuta accadere oggi: del resto, ci sono romanzi di Balzac che pur essendo ambientati nel 1830, sono ancora attuali.
- L’ambiente, Brest, è un altro elemento che ricorre nei suoi romanzi, rappresenta l’immagine esterna della desolazione interiore che abita i personaggi?
Forse ancora più che la cittadina di Brest e il dipartimento del Finistère, è importante il paesaggio in sé, con gli elementi climatici – il tempo meteorologico –, e gli elementi naturali – il mare, gli scogli che se ne stanno piantati lì, come il protagonista, a guardare tutto quello che accade intorno a loro. In questo senso, sì, rappresentano un po’ i suoi stati d’animo, uno specchio privilegiato in cui il narratore si riflette. Secondo me, però, l’importanza del paesaggio va al di là della situazione specifica, nel senso che la storia funzionerebbe anche se ambientata in un contesto diverso. In un paesino di un fondo valle, ad esempio, il protagonista potrebbe vivere le stesse esperienze, solo avrebbe bisogno di metafore diverse a cui fare riferimento. Oppure potrebbe essere ambientato in un quartiere di periferia o in una qualsiasi lottizzazione...
Non sono sicuro ci sia un’equazione specifica con il luogo, quello che posso dire è che io ho scelto questo luogo perché è la mia riserva personale di ricordi.
- Martial Kermeur è un operaio, quindi proviene da un’estrazione sociale bassa, eppure la sua lingua è ricercata, ricca di metafore e di immagini suggestive e commuoventi: non c’è una contraddizione di fondo in questa scelta?
La domanda pone la questione della figura dell’operaio nello spazio letterario, ovvero la figura di qualcuno che non si pensa abbia una padronanza retorica e linguistica. Questo mi ha obbligato a ricercare un linguaggio non diretto, ma che fa delle curve, che inventa, con deviazioni, metafore e una ricerca poetica… Quello che voglio dire è che proprio perché è un operaio e non conosce la lingua ufficiale, Kermeur può fabbricare un’altra lingua, più sinuosa, attraverso la quale posso anch’io guardare, dalla parte dello scrittore, il mondo, scomponendolo e riflettendo così la sua innocenza, la sua ignoranza. Molto spesso, in letteratura il meno diventa più.
- C’è, a livello psicologico, uno scontro tra determinismo fatalistico e meccanicistico e il libero arbitrio? In breve, è l’uomo che sceglie tra il Bene o il Male?
È una domanda complicata! Per fortuna, scrivendo romanzi, ho la fortuna di non essere obbligato a risolvere la questione, ma solo cercare di metterla in scena, di problematizzarla in una sorta di favola.
So solo che per scrivere il libro – o piuttosto il modo in cui Kermeur racconta la sua storia, è senza dubbio quello di rendere tutti gli elementi della sua esistenza come una cascata di avvenimenti necessari fra loro – una necessità causale in qualche modo – che lo portano a questo omicidio. Dunque, è il contrario dell’incidente, piuttosto è fatalismo. Tutto porta a quel momento, a quel secondo della sua vita: prima era Kermeur, dopo, un criminale. Ma quel momento racchiude anche cinquant’anni di vita che portano a quel punto. La questione del Bene e del Male diventa capire come gli eventi contribuiscono ad arrivare ad una certa conclusione.
- Quindi questo vale anche per il figlio?
Effettivamente sì, vale anche per il figlio, ma il suo ruolo è più passivo, rispetto al padre, e la sua situazione è ancora più terribile perché è un ragazzo. L’azione che compie – staccare le barche dall’ormeggio – ha un significato liberatorio e dà il là ad una cascata di avvenimenti che porteranno il padre a fare ciò che ha fatto, in questo senso si può ancora parlare di fatalismo.
È come se Erwan avesse piantato un seme rivoluzionario, un gesto che ha una doppia valenza: verso se stesso e verso il padre. Tornando al Bene e al Male, qui il Bene ha, con un riferimento chiaramente marxista, il significato di rivoluzione.
- Lei è stato definito, per questo romanzo, il Camus dei nostri tempi, in riferimento a “Lo straniero”, ma a me ha ricordato anche “Delitto e castigo” di Dostoevskij.
Certo che ci sono dei riferimenti, anche se quando scrivo non li inserisco deliberatamente. E più che con Camus, direi, giustamente, con Dostoevskij: ci sono assonanze per come viene sviscerato il crimine, la follia che lo scatena e per il modo in cui viene espiata la colpa.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Tanguy Viel, autore di “Articolo 353 del codice penale”
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