La forza della "penna" di Tea Ranno risiede da sempre nella ferma volontà di addentrarsi fra le pieghe dell’animo umano senza filtri né concessioni, avvalendosi di una nitida lente di ingrandimento in grado di catturare ogni anfratto e dettaglio. Un veritiero e passionale, a tratti crudo, focus umano e sociale dall’eco universale e al contempo dal richiamo relativo. Per lei, scavare a fondo con pazienza e tenacia, smuovendo zolle di terra dura e incolta, e gettare piccoli semi di riflessione, significa poter rendere fertile l’humus della vita di ciascun uomo e portare alla luce diversi germogli, che sono i nostri infiniti chiaroscuri.
- Una laurea in Giurisprudenza: cosa ti ha spinto ad avvicinarti al mondo della scrittura, così lontano da quello legato al Diritto? Quanto si può rintracciare dell’ambito legato al tuo percorso di studi nelle tue opere? Esiste qualche riflesso, richiamo o eco al loro interno, o questi due mondi viaggiano paralleli, senza incontrarsi mai?
In realtà è avvenuto esattamente il contrario: il diritto si è imposto sulla scrittura. Concluso il liceo classico, avrei dovuto iscrivermi alla facoltà di Lettere, ma quell’indirizzo non schiudeva ad ampie possibilità di lavoro, dunque Giurisprudenza.
La scrittura è stata con me fin da quando, piccolissima, ho cominciato ad abitare il mondo delle storie, e anche dopo — università, notariato — quando è diventata l’indispensabile ossigeno “per sopravvivere al diritto”. Per qualche tempo ho cercato di conciliare i due mondi, poi mi sono resa conto che volevo soltanto scrivere e ho abbandonato il diritto. Ma quello, come un amante appassionato, è rientrato dalla finestra ed è diventato il mio braccio destro nel governo di quella pazza sconsiderata amatissima che è la scrittura: mi ha aiutato a costruire il rigoroso impianto logico del romanzo, a dare credibilità ai personaggi (molti dei quali uomini di Legge o fuorilegge), a convogliare il magma della creatività dentro una forma che non lo spegnesse ma lo contenesse. A poco a poco, però, adeguando la sua sostanza a quella narrativa, ha innamorato di sé l’amatissima, e io sono diventata il terzo incomodo: si frammischiano, si inquinano, si influenzano, si coalizzano per risultati sorprendenti di cui non posso che prendere atto.
- Melilli vs Roma: cosa ti porti dentro e cosa ti lasci dietro del tuo paese di origine? E cosa hai assorbito della città in cui vivi e lavori attualmente?
Ho portato con me molto più di ciò che pensavo di possedere. Solo quando te ne vai t’accorgi d’aver dentro un tesoro che mai avresti scoperto se non fossi partita. Nella lontananza, quando la nostalgia ti devasta, diventi archeologa di te stessa: scavi e trovi parole, fatti, persone che non sapevi d’aver custodito, e sono questi che ti permettono di continuare a vivere come se non te ne fossi andata: “come”, perché invece te ne sei andata e guardi alla tua terra con occhi che la distanza rende più acuti, più spietati.
Roma mi dà amore e bellezza, mi permette di entrare nel suo tempo che sfiora l’eternità, e di goderne. Non è ancora diventata sostanza di romanzo, né so se mai lo diventerà: per conoscere una città tanto bene da poterla raccontare, venticinque anni di permanenza forse non bastano.
- Le tue opere sono state pubblicate da importanti marchi editoriali. Nel corso del tempo si è manifestata in te una sorta di “evoluzione” a livello personale, più intimo e dal punto di vista puramente narrativo, formale? Hai percepito come donna e come scrittrice una maturazione in atto? E noi, come lettori, possiamo riscontrare alcuni cambiamenti avvenuti?
È la vita che ti cambia: cresci, evolvi, e la scrittura con te. E siccome vita e scrittura camminano appaiate, è difficile capire quanto l’una possa influenzare l’altra. Da Cenere (pubblicato nel 2006) a Sentimi (2018) ho mantenuto lo stesso impegno nel raccontare le donne, la stessa attenzione nel documentarmi (lasciando che fosse l’anima giuridica a prevalere), la stessa cura nello scandaglio dei personaggi, la stessa sorveglianza della scrittura. La maturazione si è manifestata nella scelta della storia, nella predilezione di una figura piuttosto che un’altra, ma niente di troppo evidente, credo, agli occhi dei lettori. Il cambiamento forte è avvenuto con L’amurusanza (2019): “Via la tragedia”, mi sono detta, “affidiamoci alla leggerezza senza però smettere denuncia e impegno”. E così è nato un romanzo diverso dai precedenti: ho riso e fatto ridere, ho calcato la mano per rendere più evidenti i contrasti tra bene e male, onestà e malaffare, discariche e paradisi di cui impedire la violazione. Mi sono trasformata nel giullare di corte che sbeffeggia il re. E mi sono molto divertita.
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- Rapporto con i personaggi: quanto è importante per te la funzione di un protagonista o di un personaggio secondario? Come nasce l’idea di una figura attorno alla quale far ruotare, in toto o in parte, la storia narrata? E quanto possiamo rintracciare di Tea in uno o più personaggi? Esistono dei rimandi e delle similitudini?
I personaggi fanno la storia, la vivono e, rendendomi compartecipe delle loro vicende, mi permettono di raccontarla. Il protagonista è il sole che irradia l’energia necessaria affinché gli altri personaggi — coadiuvandolo o confliggendo con lui — perfezionino la macchina narrativa, la colmino di senso e le permettano di avanzare più o meno speditamente verso l’unica meta possibile.
L’idea di creare la figura forte, perno del romanzo, non nasce sempre alla stessa maniera: per raccontare Viola Fòscari e Vincenzina Sparviero ho preso spunto da fatti veramente accaduti nel mio paese, in Cenere il personaggio di Stèfana è sorto dalla necessità di avere una strega da porre sul rogo, ne L’amurusanza volevo raccontare una donna che, rimasta vedova, non solo non soccombesse alle sopraffazioni di un sistema malavitoso, ma riuscisse a sovvertire l’intero sistema.
In quanto a Tea, si parcellizza, immette frammenti di sé in ogni essere che agisce nella storia, da quello che se ne sta nella penombra a quello che domina la scena: parti minime, che si combinano col substrato caratteriale del personaggio (ognuno è davvero una persona a sé) e formano un composto nuovo, che di Tea ha forse solo quella scintilla iniziale.
- Il mondo femminile: da un primo sguardo si può evincere un’attenzione particolare verso figure di donne come protagoniste delle tue opere. Quanta valenza assume per te poter dare voce all’universo femminile? Si tratta di un focus dettato semplicemente da un tuo istintivo e intimo bisogno, diciamo pure una sorta di naturale predisposizione, oppure ritieni che questo mondo abbia più cose da rivelare rispetto all’universo maschile?
L’attenzione verso un femminile violato si è manifestata dopo la lettura de La strega e il capitano, cronaca di un processo per stregoneria magistralmente condotta da Sciascia. Sono uscita da quel libro avvelenata: avevo l’impressione di aver vissuto fino ad allora con gli occhi chiusi, di non aver capito quale deminutio fosse spesso l’essere donna, avere un corpo di donna, dover rispondere di accuse infamanti solo per il fatto di essere, appunto, donna. Ho continuato a documentarmi, a leggere atti di processi per stregoneria, il Malleus malleficarum (il vademecum dei Domenicani in ambito stregonesco), acquisendo così le competenze — la rabbia c’era già tutta — per scrivere una storia in cui vendicavo Caterina, la strega di cui racconta Sciascia, mandata a morire solo per aver malefiziato il senatore di cui era la fantesca.
Dalle streghe ai femminicidi il passo non è stato lungo. Ancora violazioni, ancora la penna come strumento di denuncia, ancora la possibilità di dar corpo e voce alla rabbia, ma pure all’amore, alla seduzione, all’incanto di un ragionare assieme — donne e uomini — in un’armonia alla quale tendo con le mie storie e che ne L’amurusanza mi pare di aver raggiunto.
Non credo che il femminile abbia più cose da rivelare del maschile, è solo che lo conosco più profondamente e dunque posso meglio raccontarlo.
- Ambientazione: quanto è importante per la funzionalità della storia narrata, quanto può incidere la descrizione di un determinato contesto, paesaggio o luogo che sia? Sei spinta naturalmente verso la ricerca di tali parti descrittive, anche verso una certa “cura” del dettaglio?
L’ambientazione è fondamentale: pure le pietre parlano, pure un filo d’erba, uno scroscio di pioggia o la ferocia del sole in un giorno d’agosto. È la naturale osmosi tra l’interiorità e l’esteriorità, tra l’emozione e il luogo in cui quell’emozione si esplica. Nella mia pagina anche i dettagli apparentemente futili fanno parte di una scenografia eloquente: ogni elemento — parola, gesto, suono, odore, colore, silenzio — ha una funzione di rilievo in quella gran sinfonia che è la narrazione. Molto spesso l’ambiente si compone da solo, evocato dalla scena che sto descrivendo, per cui diventa naturale che un fatto accada in una piazza piuttosto che in una cucina. Altre volte, invece, sono io che ragiono su un dettaglio da inserire per rendere più incisiva la narrazione.
- L’Amurusanza: un titolo particolare, che colpisce all’istante in quanto molto evocativo. Cosa puoi rivelarci di questa lettura intensa, profonda, a tratti “viscerale”? Quale mondo ti sei prefissa di rappresentare e quali messaggi vuoi affidare al tuo pubblico di lettori? Questo romanzo edito per Mondadori è nato partendo dall’immediato richiamo del titolo, oppure il titolo è derivato solo dopo aver delineato trama e struttura dell’opera?
Amurusanza è il piccolo atto d’amore, un gesto che non dice il bene ma lo manifesta. È una parola che ricorre molto spesso nel romanzo, perché sono appunto le amurusanze - il bene, la solidarietà, l’affetto, la volontà di perseguire l’onestà e la ricerca del bene comune - che daranno ai personaggi, Agata la Tabbacchera in testa, la forza di cambiare il mondo anche “a colpi di poesia”, dunque per mezzo della cultura.
Il messaggio è semplice: usare onestà, sapienza e competenza per strappare la gramigna del malaffare che molta politica semina da decenni, guadagnandone in dignità, salute, e anche felicità.
Il titolo è venuto dopo, a libro concluso. Quello provvisorio, che mi ha guidato nella stesura del romanzo è stato La Tabbacchera, proprio perché vedevo in Agata il fulcro della storia e il suo senso. Poi, però, ragionando con gli editor, mi sono resa conto che il romanzo — pur mantenendo nella protagonista il suo fuoco — è corale e, soprattutto, è intriso d’amurusanza, cosa di cui, scrivendo, non m’ero quasi accorta, per cui, alla fine, sì, il titolo giusto è L’amurusanza.
“Parola d’ordine ci vuole, mio signore, per accedere alle stanze della vita, parola che squaglia il gelo e splende sparpaglio di bellezza e di luce. Lo sapesse, Vossia, quella parola? Amurusanza fa lui senza esitazione. E le porte si spalancano e il sole ride e la vita canta”.
- Scrittura vs lettura: cosa rappresenta per te scrivere? Come vivi ogni volta la stesura di una tua opera? Esiste un luogo particolare e/o un momento specifico della giornata che dedichi alla scrittura? Quali messaggi speri che i tuoi lettori possano percepire e ricavare di volta in volta dai tuoi romanzi? E la lettura cosa significa per te? Quali generi prediligi maggiormente?
Scrivere è sempre stato l’ossigeno di cui ho avuto bisogno, come se l’aria in cui sono immersa non mi fosse mai bastata. Sono cresciuta con quaderni e penne per le mani — merito di una giovane mamma maestra —, ricordo le ondine di cui meticolosamente riempivo le righe prima ancora di andare a scuola, e di cui chiedevo a mia madre la decodificazione. È stata la mia possibilità di fuga quando la vita s’è fatta amara, il gioco di quando sono stata felice, la porta spalancata nel tempo in cui mi sono sentita in gabbia, la possibilità di sopravvivere al diritto (non ho cambiato facoltà per amore, avendo incontrato lì l’uomo con cui sto da trentasette anni), la bussola quando mi pareva di perdermi, il vino di cui ubriacarmi, la cassata da gustare in silenzio — un cucchiaino alla volta — per feste solamente mie. E tale è rimasta: ossigeno, bussola, fuga, cassata, avventura, nostalgia, speranza e perseveranza, solo che tutto questo, adesso, s’accomoda nella forma del romanzo e diventa privilegio anche d’altri.
Scrivo dappertutto, ho sempre un taccuino in tasca. Ogni momento può essere buono e così ogni luogo: sala d’attesa, posta, metropolitana, autobus, treno, traghetto… Tuttavia, quando la scrittura sversata bollente sul taccuino si raffredda e posso trascriverla su un file di word per organizzarla in una forma narrativa compiuta, allora cerco il silenzio e la solitudine della mia stanza. Comincio a lavorare intorno alle cinque del mattino e posso continuare fino a sera: dipende da quanto la storia mi prenda, da quanto la febbre passi dal taccuino al file trascinandomi in una nuova scrittura che è ampliamento, completamento ma pure mutilazione della prima.
Dalla lettura dei miei romanzi spero che i lettori ricavino intanto il piacere di un viaggio bellissimo, e poi l’empatia coi personaggi, la possibilità di entrare in anime di cui abbiano voglia di saperne di più.
- Un titolo “per amico”: sei legata in modo particolare a una tua opera, e se sì, vuoi dirci il titolo? Oppure ogni storia narrata ti ha lasciato qualcosa nel profondo e in ugual misura?
I libri sono come i figli, li si ama tutti. Se però ce n’è uno un poco più fragile, un poco più debole, è su quello che s’appunta l’amore.
In una lingua che non so più dire è il primo romanzo che ho scritto (pubblicato dopo Cenere), mi sembra il più acerbo, sia come soluzione narrativa, sia come scrittura, perciò è il più amato. È stato il primo tentativo di storia lunga andato a buon fine: per anni ho scritto e cancellato, colmato taccuini di idee, spunti, dialoghi, descrizioni, racconti, fiabe, favole che ho puntualmente distrutto. È il paziente esercizio, l’umiltà nel praticare l’artigianato della scrittura, il continuo confronto con i classici della letteratura che fa di te, a lunghissimo andare, uno scrittore.
Ogni storia che ho scritto mi ha insegnato qualcosa, soprattutto quelle che sono rimaste nei quaderni, perché è da esse che ho imparato il rispetto per la lingua, la verità di un personaggio, la necessità di una struttura coerente, la scioltezza dei dialoghi, il senso del ritmo e del tempo. È in tutti quegli sbagli, in tutti quegli scarti che ho ragionato sulla vita — cosa diversissima dal vivere — acquisendo piano piano gli strumenti per poterla raccontare.
- Progetti futuri: hai nel cassetto una nuova storia pronta per la pubblicazione? Cosa ne pensi di un’eventuale trasposizione cinematografica di un tuo romanzo? E nel caso, quale titolo sceglieresti da affidare al piccolo o grande schermo?
Il mio ultimo romanzo è stato pubblicato ad autunno scorso e si tratta di una storia di Natale in cui mi è piaciuto parlare ancora di amore, di magia, della gioia che viene dal condividere il pane e la casa, del farsi famiglia grande che accoglie creature con cui la vita è stata amara, e che l’amurusanza cambia in luce che più forte accende il mondo tabbacchero.
In quanto alla trasposizione cinematografica, molti dei miei lettori dicono che le storie raccontate nei miei libri potrebbero diventare dei film. Se ne dovessi indicarne uno, sarebbe L’amurusanza, perché è il più allegro, magico, sorprendente, dotato di quella leggerezza che, soprattutto di questi tempi, può levarci il cuore dal carbone e darci speranza di rinascita, di cambiamento anche “a colpi di poesia”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista alla scrittrice Tea Ranno, in libreria con "Terramarina"
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