Filippo Tuena è nato a Roma nel 1953. Ha scritto Il volo dell’occasione (1994; nuova edizione 2004), Cacciatori di notte (1997), Tutti i sognatori (1999, superpremio Grinzane-Cavour), Michelangelo. La grande ombra (2001; nuova edizione 2008), Ultimo parallelo(Premio Viareggio 2007) e Manualetto pratico a uso dello scrittore ignorante (2010).
Ha curato un’antologia dell’epistolario di Michelangelo Buonarroti (2002), I diari del Polo di Robert F. Scott (2009) e il volume fotografico Scott in Antartide (2011). Dirige per Nutrimenti la collana Tusitala.
Il romanzo Le variazioni Reinach (Super Beat 2015), uscito nel 2005 per Rizzoli e vincitore nello stesso anno del Premio Bagutta, viene ora proposto in una nuova edizione completamente rinnovata.
Una Sonata perduta e ritrovata ottant’anni dopo la sua prima esecuzione è al centro di questo prezioso volume che ricostruisce la storia dei Reinach, banchieri parigini ricchissimi di origine ebraica dal tragico destino che avrà il suo compimento ad Auschwitz. Una scrittura originale quella dell’autore che conduce per mano il lettore attraverso pagine indimenticabili che diventano documento storico e imperitura testimonianza di un’epoca.
“La vede salire lo scalone e attraversare i saloni deserti e come una perfetta padrona di casa controlla ogni cosa, passa la mano sopra i ripiani delle commodes, scorre le dita tra gli intagli delle cornici, sistema col piede gli angoli dei tappeti arricciati e prima di lasciare ogni ambiente si volta per accertarsi che tutto sia in ordine e il suo sguardo ha un’espressione accigliata e fredda, in contrasto con i suoi sentimenti che sono di grande rimpianto e di profonda malinconia”.
- Per quale motivo a dieci anni dalla pubblicazione ha deciso di riprendere in mano Le variazioni Reinach?
Un po’ lo spiego nella nota finale del libro e a quella rimando per lo specifico. Mi limiterei qui a dire che ho fatto un lavoro sullo stile, sulla punteggiatura, per dare maggior tensione al testo. E asciugato laddove mi sembrava d’esser stato ridondante. Più in generale mi sembra che ogni libro documenti uno statu-quo legato al momento della pubblicazione e che, a dieci anni di distanza dalla prima edizione, forse è doveroso documentare non soltanto i ritrovamenti di questi anni, quanto l’evolversi (o l’involversi) della mia scrittura. Quel che poteva soddisfarmi allora può non essere più adeguato adesso alle mie intenzioni. I libri che ho pubblicato nel frattempo hanno alzato l’asticella. Ora mi sembra che si sia situata a un limite superiore a quello che potevo affrontare dieci anni fa. E dunque, lo affronto. Un margine di rischio dev’essere sempre presente nello scrivere. È un cimento che rende la scrittura una sfida interessante, almeno per l’autore. Spero che sia così anche per il lettore.
Desidera descrivere le sensazioni che provò visitando il palazzo-museo parigino intitolato a Nissim de Camondo, “hôtel particulier” arredato preziosamente nello stile del XVIII secolo, dal quale trasse lo spunto per la redazione del libro?
Nel primo capitolo racconto quell’effetto di straniamento che mi procurò il contrasto tra il lusso degli ambienti del Musée Nissim de Camondo e la vicenda degli ultimi proprietari. Ero andato impreparato e ne rimasi colpito. Il luogo, ancorché splendido, ha una sua terribile cupezza, una cristallizzazione che si percepisce come qualcosa di freddo, avulso dalla vita pulsante che possono portare gli inconsapevoli turisti odierni. Mi sembrava che si perpetrasse una sorta di sacrilegio laico. Ho voluto indagare il perché di quella mia sensazione. Ed è stata un’avventura che mi ha modificato anche come persona. Forse nessun altro libro che ho scritto ha inciso nel mio essere.
- Chi era Léon Reinach?
Un’inconsapevole. E per questo motivo, un innocente, una vittima incolpevole. Forse neppure troppo intelligente. Ma molto sensibile. Un sognatore. Aveva deciso di vivere ai margini della società, contentandosi di realizzare poche cose, forse cosciente di non essere all’altezza della famiglia da cui proveniva. Un padre incerto, fragile e, per me, una specie di figlio irrealizzato. Mi è parso un dovere morale cercare di ricostruire la sua vita, un atto etico, come dovrebbe essere la scrittura di un libro. Mi sono messo, come autore, al suo servizio, anche se poi il libro racconta il rapporto che si stabilisce tra uno scrittore e la storia che cerca di raccontare.
- Quali fonti ha consultato per la stesura del romanzo?
C’è stato un gran lavoro di ricerca, sviluppato essenzialmente su quattro fronti: le testimonianze dei pochi che hanno conosciuto i Reinach; il lavoro d’archivio, alla ricerca dei documenti riguardanti la famiglia Reinach; il lavoro sul campo, ovvero la ricognizione nelle case che hanno abitato, le città, i luoghi; il setaccio della letteratura sulla Shoah, sulla Parigi del ‘900, sui campi di concentramento e di sterminio. A questa ricerca ho cercato di raccontare le sensazioni personali che ho provato, sempre molto intense, mentre lavoravo al libro perché è evidente che un libro come questo non può rinunciare al punto di vista di chi scrive. E al confronto che si realizza tra le esperienze personali dell’autore e quelle dei suoi personaggi.
- Il volume è a metà tra saggio e romanzo?
Sì. Ormai, da una quindicina d’anni tento questa strada che si basa su vicende reali, personaggi storici, su cui lavoro in maniera, per così dire, narrativa. O, se si preferisce, letteraria. Se c’è un personaggio come Michelangelo, o Reinach, o Scott che sento intimamente capace di raccontarmi qualcosa d’importante, mi metto al servizio della sua storia e cerco di approfondire, analizzare il perché di questo interesse. Non potrei più lavorare a libri di fantasia. Non sono più capace di inventarmi storie. Trovo che la realtà fornisca tutti i materiali necessari al lavoro della scrittura. Ultimamente ho cominciato a lavorare sull’autobiografia e penso che, col tempo, affronterò questo che ritengo un campo molto stimolante, ancorché pericoloso: raccontare di sé con l’illusione di mantenere le distanze necessarie dai fallimenti e dai successi che ho vissuto. Credo che sia lo stile l’unico mezzo per evitare pericolose cadute di gusto, nel porsi al centro della narrazione. Anche questo è un bel cimento.
- Quanto è importante mantenere sempre vivo l’esercizio della memoria?
Si fa narrativa solo facendo ricorso alla memoria. Un narratore incamera dati, li elabora, e li mette per iscritto esercitando una memoria individuale. Solo così trasforma in narrazione quel che ha appreso durante le sue ricerche. È ovvio che c’è bisogno di un lavoro sullo stile, sulla struttura del racconto, tutte cose che rendono viva, espressiva e quindi convincente la pagina scritta. Se poi per esercizio della memoria s’intende la storicizzazione, l’eticità (ovvero mantenere vivo il ricordo degli eventi trascorsi perché non si ripetano gli errori d’una volta), è evidente che è un esercizio importante. Ma io penso anche che non è solo con l’esercizio della memoria che si evitano certe situazioni; occorre che a questo si affianchi l’analisi del contemporaneo. La memoria non accompagnata da uno sguardo sul presente ha poca possibilità d’incidere su quello stesso presente.
- Che cosa rappresenta per Lei la scrittura?
Una forma di grande libertà. Incoercibile. Ma che per essere realmente necessaria, per me, deve porsi al servizio di una vicenda umana importante, paradigmatica, che sia quella di un artista, di un esploratore o di un musicista dilettante che ha affrontato i rovesci della Storia. Come dicevo non sono più interessato alla narrativa d’invenzione, alla costruzione di un personaggio di fantasia o a creare intrecci immaginari. E, in più, è il modo nel quale mi esprimo e col quale cerco di relazionarmi col mondo che mi circonda. È vero che scrivo sempre del passato, perché la Memoria è alla base di ogni Narrativa, ma l’atto creativo è tutto inserito nel presente. Affronto questioni di stile, di espressività, che competono al mio quotidiano, al senso che credo debba avere la narrativa oggi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Filippo Tuena che torna in libreria con “Le variazioni Reinach”
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