Nato nel 1980 in provincia di Frosinone, Francesco Formaggi ha studiato Filosofia all’Università di Bologna dove si è laureato in Estetica e ha iniziato a scrivere i suoi primi racconti. Tornato in Ciociaria dopo la laurea ha svolto i lavori più diversi (cameriere, commesso in un videonoleggio, operatore di un call center) e ha continuato a coltivare la passione per la scrittura: con il testo “Birignao” (2011) ha vinto il Premio Creatività della Scuola Holden. Dopo aver pubblicato, nel 2013, “Il casale” (il romanzo d’esordio di cui “Birignao” era una versione embrionale e autopubblicata), attualmente collabora con Nuovi Argomenti. Ha recentemente pubblicato “Il cortile di pietra” e il libro per ragazzi “Non chiudere gli occhi”.
Abbiamo intervistato l’autore per conoscere meglio il suo ultimo romanzo.
- Ci siamo lasciati nel 2013 dopo un’intervista per il tuo romanzo d’esordio, “Il casale”, pubblicato sempre da Neri Pozza: che cosa è successo in questo periodo di tempo?
Da allora, ho continuato ad inseguire il sogno della mia realizzazione come scrittore e, parallelamente, ho cominciato una sorta di riflessione e di ricerca sull’infanzia, in particolare sulla mia infanzia, come se avessi avuto la necessità di ritrovare il bambino che ero stato e cercare di capire l’adulto che volevo diventare e che ero. Questo percorso di ricerca mi ha portato poi all’esigenza di raccontarla, facendola diventare argomento di ciò che stavo scrivendo. Mi sono detto: “Devo assolutamente scrivere un libro che parla di bambini”. Così, il protagonista de “Il cortile di pietra” è un bambino, e l’idea era permettere al lettore di entrare nella testa di un bambino. Siccome poi non mi accontentavo di una storia contemporanea, a un certo punto ho avuto la necessità di creare una distanza, non solo temporale, non solo geografica, ma anche letteraria, che mi ha portato ad ambientare questo libro in un periodo sospeso – che potrebbe essere il dopoguerra, che non è contemporaneità.
Quindi, in questi tre anni circa, oltre ad essere stato impegnato in altri lavori, mi sono dedicato a questo libro, che non è stato facile scrivere, perché ho affrontato questioni sopite, nascoste, e che sono emerse durante la stesura. Volevo fosse una sorta di evoluzione rispetto al primo romanzo: ho dato più importanza ai personaggi, ai loro sentimenti e alla loro interiorità, più che a una situazione esterna, come poteva essere ne “Il casale”.
- Prima di entrare nel dettaglio di questo romanzo, visto che hai accennato a “Il casale”, oltre che nei contenuti, c’è stata un’evoluzione anche dal punto di vista dello stile, che avevi definito “asciutto”?
Sì, c’è stata un’evoluzione anche in questo senso. Sono fermamente convinto che ogni libro debba avere una sua forma, un suo stile: ne “Il casale”, come storia contemporanea, c’era necessità di “asciuttezza”, mentre in questo romanzo avevo molta più voglia di entrare nell’interiorità dei personaggi, nelle cose solo raccontate, che non si vedono, nei sentimenti, nelle emozioni, nei movimenti interiori. E per fare questo, ho avuto bisogno di una scrittura – come la vogliamo chiamare? – più densa, più corposa.
L’evoluzione è stata forse più verso una sorta di “espressionismo”, che pure era presente anche ne “Il casale”, soprattutto nella descrizione dei personaggi, nello sguardo che deforma o forma la realtà. Là, era il narratore in prima persona ad avere questo sguardo, qui si trova soprattutto nelle descrizioni: i personaggi, guardando il mondo, gli danno forma.
- Hai parlato del percorso che tu stesso hai intrapreso prima e durante la scrittura del romanzo: hai inserito nella trama elementi autobiografici o è tutta finzione?
Tutte e due le cose. Il vissuto del bambino è frutto della mia esperienza personale, di una o due settimane di permanenza – pochi giorni, comunque – in un asilo di suore, nella metà degli anni Ottanta, che mi ha segnato, perché ho potuto vedere la violenza indicibile di queste donne. A questo si aggiunge una sorta di anaffettività che ho vissuto da piccolo ed una diffusa sensazione di abbandono: all’inizio, pensavo che il tema principale di questo libro dovesse essere, appunto, l’abbandono, che non è necessariamente un abbandono fisico. Per essere abbandonati, non c’è bisogno che i genitori ti lascino da qualche parte e se ne vadano. Può avvenire anche se rimani a casa con loro, nel caso in cui ti abbandonino interiormente – che è la cosa peggiore. Significa che non ti vedono come il bambino che sei, non si prendono cura di te. Magari non dal punto di vista materiale, visto che, fortunatamente, non siamo più nel periodo del dopoguerra in cui ha vissuto Pietro, quando c’era bisogno di soddisfare la fame e altri bisogni materiali. Oggi le mancanze assumono un’altra forma: io ho vissuto l’assenza affettiva dei miei genitori in questo modo, come abbandono. Questa mia esperienza personale è confluita soprattutto nel protagonista e nei suoi stati d’animo, come la paura del buio e la necessità di liberarsi da questa paura.
- Oltre ad un tuo processo di identificazione con il protagonista, la scrittura ha avuto anche un ruolo “terapeutico”?
Sì, naturalmente. Posso dirti che quando ho cominciato a scrivere, ancora temevo un po’ il buio, da quando ho finito il libro, questa paura non ce l’ho più. Ma non perché me l’abbia curata – non è quello il punto – è che la scrittura ti mette nella condizione di fare i conti con alcune dimensioni interiori che avevi negato, che avevi accantonato o non avevi affrontato interamente. E questo spero accada anche ai lettori. Mi sono reso conto che, mentre scrivevo e cercavo di sviluppare soprattutto la vicenda di Piero, il protagonista, ho dovuto rispondere a delle domande sull’infanzia: che cos’è, che cosa accade a un bambino quando viene maltrattato, cosa succede nella sua mente...
A un certo punto un bambino viene frustato dalle suore: come reagisce? Come si sente, che cosa gli accade dentro? Naturalmente le mie risposte sono da romanziere, frutto dell’immaginazione, ma spero che nel lettore accada una cosa soltanto: che dopo aver letto il mio libro, guardi il mondo dell’infanzia, i bambini, in una maniera differente, con più attenzione. Sarebbe il regalo più bello.
- Come ti sei documentato su quella che poteva essere la vita - che hai descritto in modo così preciso - in un collegio religioso in quel periodo?
La trama, nel suo complesso, è frutto anche dei racconti fatti nel mio paese d’origine, che riguardavano conventi di suore in un territorio molto cattolico. E fra questi, soprattutto le storie di due persone: Mario, il mio amico, che ora non c’è più, e Clotilde, una signora che ha fatto un corso di scrittura con me e che mi ha raccontato la sua esperienza diretta del periodo trascorso in collegio. Ho potuto così ricostruire con la fantasia la vita quotidiana di quei bambini: che cosa facevano la mattina, quali lavori dovevano fare e in che modo, come venivano trattati dalle suore… ed anche molti episodi, come quello del bagno, della caldaia e quello della dispensa dove vengono rinchiusi Pietro e Mario.
- Cosa puoi dirci dell’ambientazione?
Mi sono reso conto che ho necessità di scrivere storie ambientate in campagna – era già successo con “Il casale” –, in luoghi lontani dalla città, dove non riesco più nemmeno a vivere.
Ho bisogno di stare all’aria aperta: la mia fantasia si sviluppa intorno a quegli ambienti.
- La paura e il senso di morte aleggiano su diverse situazioni, emozioni forti che hai saputo descrivere in modo davvero convincente...
Forse, più che di morte, parlerei di abbandono generale, mentre il finale del libro contiene una sorta di riscatto, cui ho dato più importanza, rispetto al resto. Il senso di morte c’è soprattutto in riferimento all’ambiente umano: la povertà, la miseria, che porta ad una sorta di morte interiore. La rappresentazione della morte fisica prende poi corpo col ritrovamento della “fossa” e con il ricordo che Leo, una delle figure adulte positiva, ha dell’esperienza di molti anni prima.
La morte, quando c’è, non è certo una morte violenta: è piuttosto un istinto di morte che è presente nelle persone anaffettive. Di contro, c’è la resistenza dei bambini e della fantasia che permette la vita.
- Uno dei temi fondamentali del libro è l’amicizia: vuoi approfondire questo aspetto del rapporto fra il protagonista, Pietro, e un altro bambino che vive nel collegio, Mario?
È l’amicizia che permette ad entrambi di salvarsi. E questo può accadere principalmente, quasi in modo esclusivo, fra bambini, perché è un sentimento spontaneo. In genere fra adulti l’amicizia può essere un rapporto più complicato, contornato da secondi fini ed interessi: non è quasi mai è disinteressata. Quando uno ha la fortuna di avere amicizie disinteressate, è ricco. Fra i due personaggi, l’uno non vuole che il bene dell’altro. Non solo: grazie alla presenza dell’altro, ciascuno riesce a trovare anche una spinta interiore per se stesso. Quindi, per fare un esempio, Pietro riesce a superare la paura del buio, e l’immobilità che ne deriva, perché promette a Mario di salvarlo, di non lasciarlo lì.
Amicizia come sentimento per cui una persona non riuscirebbe ad avere movimenti interiori di rinascita, di liberazione, senza la presenza dell’altro, o meglio, senza la certezza di un affetto altrui. È la forza interiore che deriva dalla certezza che c’è qualcuno che ci ama, che ci può salvare. Di contro, la morte interiore avviene quando si perde la certezza che qualcuno ci può salvare.
Tra questi due ragazzini accade proprio questo.
- La trama si concentra, com’è giusto, su Pietro e sulla sua vicenda, lasciando in sospeso una serie di situazioni relative, ad esempio, al comportamento delle suore ed ai loro rapporti con padre Adelmo: è stata una scelta precisa?
Sì, mi volevo concentrare principalmente sulla vicenda di Pietro e, più che altro, sul punto di vista di un bambino che vede e percepisce la realtà in modo diverso da quello di un adulto. Ad esempio, quando esce la parola “incinta”, lui non sa bene che cosa voglia dire, anche se se lo immagina. Rimane estraneo ad alcune situazioni che non comprende: un atteggiamento tipico dell’infanzia. Ho voluto lasciare che la realtà circostante, soprattutto del collegio – rappresentata dalle suore, dai racconti che aleggiano sulla presenza strana di padre Adelmo, che non si sa chi è o dov’è –, rimanesse sospesa, come probabilmente è sospesa nella mente di un bambino. L’ho voluta lasciare al margine di una coscienza, di una consapevolezza, che è più adulta che bambina.
- Pur descrivendo i comportamenti e i soprusi delle suore, tu non giudichi: lasci sia il lettore a farlo…
Sarei un pessimo autore, se giudicassi i miei personaggi. Fa parte di una sorta di deontologia del romanziere, se esiste. L’interesse principale è quello di raccontare le persone, l’animo umano, nelle sue varie sfaccettature, rappresentate attraverso i vari personaggi, costruiti con una propria vita, una propria autonomia all’interno del libro.
Poi è vero che il mio giudizio personale sulla chiesa cattolica è pessimo: detesto il fatto che esistano istituti scolastici gestiti dalle suore, non è la prima volta che lo dico. Vorrei una presa di posizione netta e che il mondo dell’infanzia fosse più laico.
- Mi ha sorpreso la forte analogia con la notizia del ritrovamento di una fossa con i resti di circa ottocento bambini nei pressi di un orfanotrofio in Irlanda: ne eri a conoscenza?
Ti spiego come sono andate le cose. Io ho cominciato a scrivere questo libro quando ancora mi stavo occupando de Il casale. La scintilla è stata il racconto di Mario, il mio amico che è stato in collegio: da adulto si è reso conto che le suore, mentre lui stava lì, facevano delle cose “poco chiare”. Ciò è avvenuto perché intorno agli anni ’70, credo, è uscita la notizia che nel Nord Italia erano stati trovati dei resti di corpi di bambini sepolti sotto il cortile di un convento di suore. Sentita questa notizia, Mario ha ricordato che nel suo collegio ogni tanto si vedeva qualche suora con la pancia, che poi spariva: fatti terribili che nella fantasia di un bambino possono assumere forme molto strane e poco comprensibili. Fra le storie che io ho raccolto nella mia terra d’origine e che venivano raccontate in paese, c’era quella di un convento di suore dove accadevano queste nefandezze: suore ragazzine che abortivano, che partorivano, seppellivano i corpi sotto i cortili dei conventi. E dopo quaranta, cinquantanni, quando si scavava per rifare le fondamenta, venivano ritrovati i resti dei corpi. Certo, queste informazioni devono essere contestualizzate con la realtà del periodo in cui sono accadute, ma io ho voluto introdurre questo elemento narrativo.
Quando poi ho sentito la notizia – che è uscita per la prima volta nel 2014/2015 – del ritrovamento di una fossa comune in Irlanda, e mi è preso un colpo perché mi sono detto che in quel Paese si stava facendo una vera e propria inchiesta, mentre in Italia ci sono ancora solo leggende. La notizia che è uscita qualche mese fa, riguarda dunque la fine dell’inchiesta che in Irlanda è cominciata due o tre anni prima, grazie all’interessamento di una storica, e richiesta dal Ministero dell’Infanzia, per capire che cosa era realmente successo in questi luoghi.
Non hanno scoperto una vera e propria fossa comune ma, come ho letto nel resoconto dell’inchiesta pubblicato sul sito del Ministero, hanno trovato alcune “stanze”, una ventina luoghi, dove venivano stipati questi cadaveri, cui hanno dato una più degna sepoltura. La storia della fossa comune è stata in parte mitigata, ma sta di fatto che il Ministro si è scusato pubblicamente e si è detto scioccato da questa scoperta. Sono certo che questo romanzo, che io ho voluto scrivere in base a dicerie e leggende popolari, sia legato ad una qualche situazione italiana: se ci mettessimo a scavare, troveremmo forse di peggio. Sicuramente è strano il forte riscontro di realtà con ciò che è successo in Irlanda.
- Dunque il tuo romanzo può essere letto anche in chiave moderna?
Sì, innanzitutto, come ho già accennato, c’è la speranza che chi legge sviluppi un punto di vista diverso, una visione nuova sull’infanzia e sui bambini. La mia è una storia che ha un sapore antico, che parla di una realtà che, almeno così brutale, nel nostro paese non c’è più. I bambini vengono trattati ancora peggio, ma in paesi “altri”, lontani. Poi, secondo me, è necessaria una riflessione sull’infanzia a livello sociale e forse anche personale: andare a vedere che tipo di bambini siamo stati, interrogarsi un po’ sulla propria storia, così da prestare attenzione a come si crescono i propri figli, così da capire quanto è importante riconoscere un’identità, una dignità e una dimensione propria del bambino, cui va dato il massimo rispetto.
- C’è un un tema che non abbiamo approfondito, cui vuoi accennare?
Sul finale, un altro tema di cui non abbiamo ancora parlato è quello della genitorialità. La domanda è: “sono più importanti i legami familiari o quelli affettivi?”. Sul finale del romanzo Pietro viene infatti salvato da due personaggi “luminosi” e la questione è se padre e madre sono coloro che ti hanno generato e partorito, oppure è molto più importante chi si prende cura di te e ti vuole bene. È una domanda che attiene al discorso sulle “famiglie allargate”, sull’affidamento…
Fondamentale per l’educazione di un bambino, dal mio punto di vista naturalmente, è l’affetto: quanto affetto, chi si prende cura di te, può dare, al di là del legame biologico.
- Per concludere, ti stai concentrando sulla promozione di questo libro, o stai già pensando al prossimo?
In realtà, ho scritto un romanzo per ragazzi dai dodici anni in su, che è uscito i primi di Aprile per una casa editrice nuova che si chiama Pelle d’oca e che è nata con l’idea di pubblicare libri gialli e noir per ragazzi, per aiutarli a superare le loro paure. Si intitola “Non chiudere gli occhi”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Francesco Formaggi, autore de “Il cortile di pietra”
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Finito poco fa di leggerlo.
lo vedrei BENE in un film tanto è descrittivo e benfatto.
Bravissimo l’autore, nonostante la storia sia fin da subito molto triste. Il finale,lascia uno spiraglio di rinascita e luce ... finalmente!
Chissà quanto cose ci vengono nascoste che non possiamo minimamente immaginare...
direi ,contestualizzato ad oggi,molto attuale,anzi,sempre attuale.
Complimenti vivissimi.
Bravo,Francesco!!