Franck Bouysse, classe 1965, è nato a Brive-la-Gaillarde ed è insegnante di biologia a Limoges. Coltiva da sempre la passione per la lettura, che lo ha portato a scrivere lui stesso: dopo l’esordio, nel 2004, con La Paix du désespoir, ha pubblicato altri romanzi ed ha partecipato a numerosi eventi letterari. Con “Ingrossare le schiere celesti” (Neri Pozza) si è aggiudicato il prestigioso Prix Michel-Lebrun 2015.
Si tratta di un romanzo ambientato nel paesaggio rurale delle Cevenne, la cui trama si sviluppa nei giorni successivi alla morte dell’Abbé Pierre, ovvero nel gennaio del 2007. Il protagonista, Gus, un cinquantenne solitario e da tutti considerato originale, viene scosso da questa notizia, ma altri fatti, incomprensibili quanto misteriosi, che coinvolgono anche il vicino Abel e il fedele cane Mars, avranno conseguenze ben più drammatiche: è il passato che ritorna con le sue tragedie e i suoi fantasmi, solo apparentemente dimenticati.
- Lei è insegnante in un liceo: quando ha cominciato a dedicarsi alla scrittura e come riesce a conciliare queste due attività?
Scrivo da sempre, fin da quando ero adolescente. Ma non è da molto che ho deciso di pubblicare: è solo da una decina di anni che faccio leggere ad altri quello che scrivo. In effetti, è stato il mio migliore amico ad avermi convinto a pubblicare. Tutto è cominciato con “Ingrossare le schiere celesti”, che è stato un grande successo in Francia: il mio editore parla di “long-seller”, anche perché, dopo la prima pubblicazione, è seguita anche l’edizione tascabile, e quindi è andata avanti per un po’. Sento che alla base c’è un lungo cammino di lettura e, naturalmente, di scrittura: leggo e scrivo tutti i giorni, non ci sono pause. Ma è difficile conciliare questa attività col mio altro lavoro che, come lei ha detto, è l’insegnamento.
Piano piano, il secondo lavoro sta diventando il primo, e viceversa: le cose cominciano ad essere un poco complicate e dovrò trovare una qualche soluzione.
- Ha detto che legge molto: quali sono gli autori che ama e ai quali si ispira?
Sono soprattutto americani, Falkner, Steinbeck, McCarthy, Morrison – i grandi spazi tipici degli Stati Uniti mi hanno sempre affascinato – e poi Dostoevskij ed altri. Non molti francesi, amo molto Jean Echenoz, ma non so se è tradotto in Italia.
Le voci sono molteplici, ma ciò che mi interessa in un autore non è tanto raccontare una storia tanto per raccontare una storia – se così fosse, rischierei a volte di interrompere la lettura –, quanto piuttosto una voce particolare, una cifra, un certo timbro riconoscibile, che posso ricavare dal racconto, ed avere accesso a questo timbro.
- Le caratteristiche di originalità che lei ha citato si ritrovano nel suo romanzo, che è stato definito “il miglior thriller francese dell’anno”: è così che può essere inquadrato?
È un’ottima domanda, proprio perché non mi piace essere inquadrato in modo secco! Credo nella porosità della letteratura, mi piacciono le cose che si mescolano. Capisco invece che chi è incaricato di vendere e di presentare un prodotto al lettore, debba in qualche modo dire di che cosa si tratta, inquadrando il romanzo in un genere. Io, malgrado ciò, resto a favore della commistione e non voglio in qualche modo dar fastidio al lettore dicendogli fin dall’inizio dove andrà a finire. La storia deve reggersi da sola, deve essere coerente e accompagnare il lettore verso un’esperienza singolare, particolare, qualcosa che magari non ha mai letto prima.
E poi, ci deve essere una sorta di musicalità: sono molto sensibile alla musica. Prima ancora di arrivare alla versione definitiva ho scritto ben nove versioni di questo romanzo. La prima versione è stata quella di getto, in cui la storia c’era già tutta; dopo di che, sono andato alla ricerca della musicalità: ogni frase è musica all’interno del testo, perché occorre utilizzare le note giuste fino ad arrivare, con una mescolanza di generi, allo spartito generale.
- Per entrare nel dettaglio del romanzo, partirei dal titolo che, ad una prima lettura, sembra quasi una citazione tratta da un testo sacro: esprime in modo chiaro una sorta di religiosità che pervade tutto il libro, dal riferimento all’Abbé Pierre, agli ugonotti, ai “succhiabibbia”. È d’accordo?
Sì, c’è però una differenza fra religione e sacro. A me interessa la sacralità, che vediamo fin dall’inizio del romanzo: il legame paradossale fra cattolicesimo e protestantesimo della figura dell’Abbé Pierre, che rappresenta la coesione di due mondi, dove il sacro oltrepassa la religione, incarnata invece dagli evangelisti – i “succhiabibbia”. È sul sacro che volevo concentrarmi, sul mistico, perché la gente che vive in quei territori, dove gli ugonotti sono stati massacrati in passato, è “imbevuta” di questi sentimenti, a volte, anche a sua insaputa.
- Può approfondire il ruolo della natura che, per certi aspetti, è essa stessa personaggio del romanzo?
In effetti, oltre ai tre personaggi, c’è molta natura, ma per me è un supporto alle loro emozioni: i personaggi, attraverso la natura, esprimono la loro emotività.
Non mi interessava magnificare la natura, o giudicarla in modo fine a se stesso. Credo che, in realtà, il bello in sé non esista: è nello sguardo di chi guarda. Gus riceve queste emozioni dalla natura, ma non ha le parole necessarie per esprimerle. La presenza della natura è sfumata, è fatta di tante cose, ha un’influenza, un impatto sulle persone: le smussa, le cambia, ed è un legame unico perché le stagioni e le storie personali sono in realtà un tutt’uno.
- Nella natura, poi, ci sono gli animali - animali compagni, animali allevati, cacciati, feriti… - Che cosa può dirci del diversificato rapporto uomo/animale?
Conosco molto bene il mondo che ho descritto: ci sono cresciuto e ci sono tornato a vivere. E di questo mondo mi affascina il fatto che tutto è trattato ed affrontato allo stesso livello: che si tratti della componente umana o della componente animale. La morte di un animale, in questo ambiente, risulta essere dolorosa quanto quella di un essere umano e, addirittura, può essere vissuta come più dolorosa quando non rientra nell’ordine delle cose. Perché la morte di un essere umano si può iscrivere, in certo senso, nella naturalità, mentre quando è una mucca a morire, ad esempio perché il parto è andato in un certo modo, non è naturale e l’impatto sull’uomo può essere molto forte. Conosco bene come si vive in questo mondo, dove il veterinario viene chiamato molto più spesso e più facilmente rispetto a un medico. È un mondo duro: io vi faccio parte e lì ho le mie radici.
Posso dire che il mio futuro è “animale”.
Parlando più in particolare del cane, posso dire che è “il compagno” per eccellenza. Laddove la parola è così complicata da pronunciare, ed è difficile comunicare fra uomo e uomo, per mancanza di dialogo, è il cane che interviene e che libera la parola. Tutto ciò che Gus non riesce a dire a una persona, lo dice all’animale. E questo è toccante. Ma le persone restano sole. Anche il rapporto che Gus ha con Abel è molto complicato, ed è Mars, il cane, a fare da legame, e quando lo lascerà, non sarà più possibile nemmeno avere questo rapporto.
- Come mai il contesto temporale è così difficile da definire, tanto da sembrare quasi una storia fuori dal tempo?
La parola che lei ha utilizzato, “fuori dal tempo”, atemporalità, mi piace molto. Sì, c’è la morte dell’Abbé Pierre che può dare una traccia sul periodo in cui avviene la vicenda, però è quasi fortuito, non è così importante, visto che questa atemporalità sostiene l’idea che gli eventi narrati possano “funzionare” negli anni Trenta, Cinquanta o Sessanta, ovvero in qualsiasi epoca. C’è, forzatamente, il riferimento alle auto, ho precisato che il territorio è quello delle Cevenne, ma poi ho concentrato la mia attenzione più sulla musicalità dei luoghi e dei nomi, che non sono mai scelti a caso.
- Uno degli aspetti del carattere di Gus che mi ha particolarmente divertito è la sua capacità, nonostante venga descritto come un sempliciotto, a tener testa, nei dialoghi, a molte persone…
Gus è un uomo libero. Sono sempre stato molto affascinato da mio nonno, che amava farsi passare per idiota, quando idiota non era. Anzi, aveva un’intelligenza molto pratica e lasciava parlare le persone, fino a che cominciavano a pavoneggiarsi; poi, piano piano, riusciva a cambiare le carte in tavola, così che il cacciatore diventava preda e viceversa.
Mio nonno riusciva a imporre il suo punto di vista, con dolcezza, con perseveranza e con molta intelligenza. Penso che Gus debba molto a mio nonno, come carattere.
- Per concludere, visti i tanti temi contenuti, ritornando là da dove abbiamo cominciato, può dirci come descriverebbe il suo romanzo?
Un giornalista francese ha descritto questo romanzo come un “noir luminoso” e questo a me è piaciuto: ci sono tante cose dentro, ogni lettore avrà il proprio modo di leggero e di definirlo come meglio crede.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Franck Bouysse si racconta in un’intervista
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