Giovanni Greco, scrittore, traduttore, attore e regista teatrale, si è laureato in Lettere classiche, diplomato in regia presso l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica Silvio D’Amico (1999), specializzato in regia presso la Guildhall School of Music and Drama di Londra (2000). Ha tradotto Vuoti di Tony Harrison (Einaudi, 2008) e Antigone di Sofocle (Feltrinelli, 2013), ha pubblicato Teatri di pace in Palestina (manifestolibri, 2005) e curato con A.M. Belardinelli il volume Antigone e le Antigoni. Storia, forme, fortuna di un mito (Mondadori, 2010). Autore di numerosi testi e regie teatrali in Italia e all’estero, insegna recitazione in versi presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico.
Con il romanzo d’esordio Malacrianza (Nutrimenti, 2012), ha vinto il Premio Calvino ed è stato finalista al Premio Strega e al Premio Viareggio.
È da poco in libreria L’ultima madre (Nutrimenti 2014), storia parallela di due donne, entrambe madri di due gemelli, ambientato nel 1978 a Buenos Aires. Maria abita in un barrio povero a sud della città e ha visto scomparire i suoi figli Pablo e Miguel inghiottiti dalla Guerra Sucia (Guerra Sporca) orchestrata dalla Giunta militare argentina. Mercedes, “nata e cresciuta nell’agio e nella mancanza di preoccupazioni”, è madre di Nacho e Mari, sottratti alla nascita a un’attivista politica arrestata e in seguito desaparecido. Attraverso il tema dell’identità negata, l’autore con una prosa realistica rievoca i momenti più bui del Novecento illuminato da quelle donne coraggiose che nella Plaza de Mayo di Buenos Aires decisero di non abbandonare la speranza, pensando a chi resistette senza speranza.
“Siamo sotto gli occhi del mondo che non si fa i fatti suoi e solo perché facciamo un po’ di pulizia”.
- “Irene è la città che si vede a sporgersi dal ciglio dell’altipiano nell’ora che le luci si accendono e per l’aria limpida si distingue laggiù in fondo la rosa dell’abitato”. Per quale motivo, tra le varie frasi che ha posto come esergo del volume, appare anche quella di Italo Calvino tratta da Le città invisibili?
Irene è una delle protagoniste dell’intera vicenda, anzi il punto di contatto tra le due madri che si contendono ‘la scena’ narrativa, Maria e Mercedes, la madre vera e quella usurpatrice. Irene è la madre biologica dei due gemelli, Nacho e Mari, cioè Pablo e Antonia, che le saranno sottratti appena nati, in cattività, per essere affidati a una famiglia di militari, quella di Mercedes, che li crescerà nell’inconsapevolezza fino alla catastrofe finale. Irene è, come tante giovani donne di quegli anni, scomparsa perché non si rassegnava all’ingiustizia e alla sopraffazione del più forte sul più debole. Irene è una città, calvinianamente, invisibile, un sogno o un incubo, una donna di cui non si saprebbe nulla in quanto desaparecida nel nulla, che viene celebrata nel mio libro con il nome che in greco vuol dire ‘pace’ (Eirene). Irene è la sintesi di una generazione cancellata, di un’idea anacronistica di mondo – un mondo che non ha paura di rivendicare l’utopia, solidale, spavaldo, rivoluzionario fino al punto di poter pagare, coscientemente, con la morte per le proprie idee inattuali.
- L’ultima madre prima di diventare un romanzo è stato un testo teatrale, nato come spettacolo-documentario sul tema dei desaparecidos. Quali e quante fonti ha consultato?
Le fonti sono state molteplici, scritte e orali. Libri letti, documenti consultati, come il rapporto Nunca mas sulle violazioni dei diritti umani negli anni della dittatura militare, ma anche romanzi argentini e non solo. E soprattutto molti incontri e interviste in loco, con donne e uomini, ragazzi e ragazze, le cui parole sono penetrate nel racconto insieme alle strade, ai vicoli, ai luoghi anonimi o memorabili di una città irresistibile come Buenos Aires. A me è capitato, per fare solo un esempio, di andare alla ESMA, il più grande centro di detenzione clandestino di Buenos Aires, dove sono scomparse circa 5000 persone, oggi Museo della Memoria, proprio il giorno in cui uno dei ragazzi che ha recuperato la propria identità, tornava a rivedere la cella, il pavimento della cella dove la madre lo aveva messo al mondo prima che gli fosse strappato di mano, quella madre biologica che lui non ha mai incontrato. È stata una delle esperienze più forti che mi sia mai capitato di vivere e che è valsa più di mille libri e di troppe parole.
- Per tratteggiare la figura di Maria che non si lamentava mai e che “nella sua fede elementare non aveva mai portato rancore a nessuno, neanche nei momenti di maggiore afflizione” si è ispirato a una figura di donna realmente vissuta?
Ci s’ispira sempre a qualcuno di conosciuto, in una sorta di collage indistricabile tra realtà e finzione. Maria è la somma o la differenza di molte figure, anche contraddittorie, con cui ho parlato e che ho poi ricostruito come in un quadro di Picasso. È soprattutto una delle mille declinazioni della metamorfosi che a un certo punto investe tutti i personaggi del romanzo: mite casalinga, poco istruita e dedita ai suoi figli e ai suoi mille debiti di vedova, un giorno si trova scaraventata sul ‘palcoscenico della Storia’, senza averlo scelto, per responsabilità dei figli e, soprattutto, dei loro carnefici. Maria fa un percorso lungo che la trasforma nei suoi figli, nelle loro passioni e nelle loro idee, in una militante rivoluzionaria che mai si sarebbe sognata una vita come quella: picchiata, arrestata, esiliata, diventa lentamente un’altra persona nel corpo e nello spirito senza perdere quella tenerezza elementare che la caratterizza fin dall’inizio, diventando uno strano essere ibrido come quello con cui inizia il romanzo.
- Mari e Nacho “non si somigliavano per niente”, Pablo e Miguel erano identici d’aspetto ma diversi nelle attività e nelle passioni. Ce ne vuole parlare?
I gemelli sono uno strano tiro che la Natura gioca all’identità dell’individuo. L’ultima madre è una lunga indagine sulla questione dell’identità che è memoria, che non è mai definita una volta per tutte, ma che non può mai prescindere dal diritto fondamentale di ‘somigliare a sé stessi’. I gemelli moltiplicano i piani della riconoscibilità e dell’irriconoscibilità che abitano tutto il romanzo. Cosa vuol dire somigliare a qualcuno? Fino a che punto? Nell’eterna dialettica tra eredità cromosomica e condizionamenti ambientali, dove si pone la relazione gemellare? Il romanzo tenta qualche abbozzo di risposta in questo senso, non in forma scientifica, ma in forma drammatica, cioè teatrale: e i gemelli in questo senso sono una delle forme più antiche con cui la commedia ha solleticato il suo pubblico affamato d’intrighi, da Menandro per arrivare fino a Shakespeare – la commedia degli equivoci, the comedy of errors, che termina sempre con il riconoscimento, l’agnizione finale, è forse il filo rosso che lega misteriosamente molti episodi apparentemente irriducibili del romanzo e della sua inesorabile evoluzione stilistica.
- Il generale Pedro Ignazio Mendoza, padre di Mercedes, è il simbolo oscuro di quegli ufficiali che durante il Processo di riorganizzazione nazionale (1976 – 1983) contribuirono a fare dell’Argentina un luogo di terrore e di repressione. Quante furono le vittime della dittatura?
Le stime dicono 30000 scomparsi. Ci sono sempre i riduzionisti che arrivano fino a 9000 (ne fosse scomparso anche solo uno…). Poi ci sono circa 600 casi di bambini ‘rubati’, di cui 109 recuperati a tutt’oggi grazie al lavoro indefesso delle Abuelas de Plaza de Mayo – alcuni potrebbero essere addirittura in Italia, oggi trenta/quarantenni, del tutto inconsapevoli. Ma credo che le cifre non diano, nella loro aridità, il portato della realizzazione di un progetto di massacro di una generazione, fin nelle sue appendici filiali, perché non resti traccia, memoria e sentore di una visione del mondo e anzi i potenziali ‘sovversivi’, figli di ‘sovversivi’ devono persino essere affidati alle migliori famiglie della Nazione perché crescano nei valori della tradizione, dell’amore per la patria e delle religione. Gli antichi eliminavano i figli dei nemici: in questo caso, più sordidamente, li si rendeva complici…
- Alla fine del volume scrive che il romanzo intreccia la storia e le storie ovvero “la realtà e l’invenzione senza che si possa davvero discernere l’una dall’altra”. È anche per questo motivo che nelle pagine si affaccia “la grande pittrice messicana Frida Kahlo”, protagonista di una mostra evento a Roma, alle Scuderie del Quirinale?
Nel romanzo si affaccia Frida Kahlo come il marito, Diego Rivera. Ma si affacciano Trotzky, Fidel Castro e Guevara. Si affaccia il ’68 e l’89, così come, con un triplo salto mortale all’indietro, il terremoto del 1908 che rase al suolo Reggio e Messina, in Italia. Mi preme tuttavia sottolineare che la Storia in questo libro è e resta un rumore di fondo, pur se rigorosamente documentata: la questione dei desaparecidos è la cornice, l’aria che si respira, l’habitat che genera le storie nelle quali si muovono personaggi estremi, paradossali, inverosimili, con una parola paradigmatici. Io non ho scritto un reportage, un romanzo storico ovvero un’opera di denuncia: ho scritto come il fratello minore di Cortazar, di Arlt, di Sabato; ho scritto di ombre e di spettri come dicono quasi tutte le citazioni che ho posto in esergo, al principio del libro. Sogno di un’ombra è l’uomo diceva un grande poeta…
- “Bisogna continuare a lavorare per la verità, la giustizia e la riparazione del danno commesso dalle dittature” ha detto recentemente Papa Francesco che, come Vescovo Ausiliare di Buenos Aires, aveva promosso a suo tempo la richiesta di perdono della Chiesa in Argentina per non aver fatto abbastanza al tempo della dittatura. Ci lascia un Suo commento al riguardo?
La chiesa ufficiale non fa una bella figura ne L’ultima madre. E d’altra parte due delle fondatrici, fatte scomparire, delle Madres de Plaza de Mayo sono due suore eroiche, Alice Domon e Leonie Duquet che insieme a Azucena Villaflor danno origine alla grande rivalsa delle madri e poi delle nonne (si trovano anche loro nel romanzo). Io non voglio entrare nelle polemiche sulle responsabilità singole che si stanno accertando ancora in questi giorni: ho imparato, a mie spese, che la verità non è bianca o nera, che la verità si nasconde tra le pieghe del grigio, nella contraddizione e nell’irrisolto. La chiesa cattolica in questo non fa eccezione, in quanto fatto umano: porta con sé tutto lo spettro del bene e del male. Personalmente detesto l’idea della gerarchia che è il contrario dell’ecclesìa, della chiesa intesa come assemblea, comunità, partecipazione orizzontale e, vorrei dire, paleocristiana. Eppure Frei Betto, teologo della Liberazione brasiliano, che ho avuto il privilegio di incontrare e intervistare e i cui libri fanno parte del mio bagaglio di riferimenti, ha sostenuto davanti a me, da marxista e da cattolico, che non si può fare a meno del potere, che la gerarchia non è un male in sé, che la scelta di stare con i ‘più poveri tra i poveri’ non significa iscriversi al partito dell’anarchia. Il perdono e il risarcimento sono categorie che non mi appartengono in ogni caso. Io, come i giovani che ho messo in scena in questo romanzo, non voglio immaginare un mondo in cui qualcuno deve chiedere scusa a qualcun altro (che spesso è morto e non se ne fa più nulla di quel perdono). Vorrei un mondo, qui e ora, in cui tutti non hanno nulla da farsi perdonare, sensi di colpa o rimorsi per delitti più o meno efferati, un mondo di amici, di pari, se non di fratelli e sorelle – sarò un ingenuo, un velleitario, un inopportuno, ma d’altra parte se non lo fossi, non scriverei romanzi…
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Giovanni Greco, autore de “L’ultima madre”
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