Herman Koch, lo scrittore olandese che ha raggiunto un grandissimo successo con il romanzo "La cena", torna in libreria con “Caro signor M.”, pubblicato da Neri Pozza. Lo scrittore ha risposto ad alcune domande.
- Fra i vari spunti di approfondimento che il suo romanzo offre, vorrei cominciare proprio dal titolo: perché ha scelto di usare solo le iniziali per uno dei protagonisti, il signor M., così come per tutti gli altri scrittori?
Ho fatto questa scelta per motivi di autenticità: molto spesso, quando si utilizza solo l’iniziale per identificare qualcuno, la gente è portata a pensare a una persona vera, che esiste realmente. Penso che anche in Italia, come in Olanda, quando qualcuno è coinvolto in un fatto di cronaca, spesso si usano le iniziali, così da mantenere la privacy. Inoltre, in Olanda, in base a quelli che sono gli scrittori di riferimento, qualche iniziale può far venire in mente un autore in particolare, anche se non al 100%: proprio per questo ho utilizzato questo stratagemma. E’ come fare l’occhiolino al lettore, dicendo: “Se riesci a riconoscere qualcuno, è lì, sai bene di chi sto parlando!”. C’è chi ha anche pensato di riconoscere in “M.” uno scrittore già morto, ma non è assolutamente lui!
Certo, all’estero, ad esempio in Italia, questo non funziona, e ne sono contento.
- Quindi qualcuno dei suo colleghi olandesi si è riconosciuto in uno dei personaggi?
Effettivamente è possibile che qualcuno si sia riconosciuto, ma, come dicevo, non avrà la certezza di essere lui al 100%. Un critico ha anche cercato di collegare uno scrittore ad ogni iniziale, ma si è sbagliato. Mi sono preoccupato solo per un collega, che potrebbe corrispondere a “N.”, perché è davvero simile al personaggio. Ho pensato: “Quando lo incontrerò al prossimo party, non mi rivolgerà la parola!”, invece mi ha salutato calorosamente. Allora, o non ha colto la somiglianza, o non ha proprio letto il romanzo!
- Quando il protagonista di un romanzo è uno scrittore, si può creare un gioco di rimandi con l’autore stesso: il signor M. ha qualche analogia con lei?
Sì, abbiamo molti aspetti in comune. All’inizio, quando il suo vicino gli si rivolge in prima persona, anche per lettera, descrivendolo come una persona mediocre, non emergono particolari somiglianze; quando invece è l’autore che prende la parola, allora abbiamo molto in comune. Ad esempio, come si sente quando deve parlare in pubblico, davanti ai suoi lettori, e come deve reagire a certe domande: “A che ora scrive?”, “Usa il computer?” (lei comunque può chiedermi tutte queste cose!). C’è un altro aspetto simile: M. a un certo punto si chiede che cosa succederebbe se davvero dicesse o scrivesse quello che veramente pensa, perché l’unica cosa che puoi fare quando scrivi un romanzo è inserire ciò che è "accettabile". La stessa cosa vale anche per la parte che riguarda i fotografi e le fotografie... Effettivamente, sono problemi “grassi”, non posso lamentarmi, ma mi sono detto che prima o poi avrei scritto e descritto situazioni simili e le ho inserite in questo romanzo!
- C’è una lunga parte dedicata alla libertà del romanziere, la cui immaginazione non deve essere ostacolata o limitata da una conoscenza eccessiva dei fatti: è così anche per lei? Sì è ispirato a qualche episodio realmente accaduto per questo romanzo?
No, in questo libro non mi sono ispirato alla realtà, cosa che invece ho fatto ne La cena, dove un episodio di cronaca nera mi aveva fornito lo spunto per la trama. Qui c’è una sorta di riferimento ironico al mio libro più famoso: due adolescenti che sono sospettati di aver compiuto un atto forse di violenza. Ne La cena avviene la stessa cosa, c’è la vera storia di due adolescenti sospettati di aver ucciso un senzatetto e, partendo da un elemento di realtà, ho usato la mia immaginazione per creare l’intera storia, con la reazione dei genitori e la punizione che ci sarebbe stata o meno. All’epoca, avevo parlato con l’avvocato dei due ragazzi accusati: mi aveva dato molte informazioni che non mi sono state assolutamente utili per il romanzo, perché è qualcosa di indipendente dalla realtà.
Mi piace citare un episodio raccontato in un’intervista da Gabriel García Márquez, il quale aveva fatto delle ricerche per il suo Cent’anni di solitudine. Aveva saputo che nella rivolta contro la Compagnia Bananiera c’erano state migliaia di morti. Recatosi poi in Colombia, aveva cominciato ad indagare, scoprendo che erano state uccise solo quattordici persone: tutte le sue ricerche si erano rivelate inutili, perché, come poi ha scritto, gli servivano più di un migliaio di morti!
Per ogni libro la realtà serve solo fino ad un certo punto.
- Nella trama lei ha lasciato comunque dei vuoti: ad esempio, mi sono chiesta che fine ha fatto il gruppo di amici, e Laura in particolare, dopo tutti questi anni, o qual è il ripugnante dettaglio fisico del professore... In questo caso è il lettore che deve riempire questi vuoti?
Sì, questo è vero, è una cosa che faccio molto spesso nei miei libri, anche se non proprio deliberatamente: semplicemente ho questo istinto a non dare tutte le informazioni, a non raccontare tutto, a lasciare degli spazi bianchi che sarà il lettore a riempire. Per quanto riguarda Laura, che ci racconta dal sua punto di vista la relazione con il professore di storia, avevo scritto molto di più, entrando nei particolari, ma nel momento in cui viene dichiarato il suo amore per Herman, mi sono fermato: sarà il lettore a immaginare che cosa le succede poi. E per quanto riguarda il riferimento al difetto fisico del professore... è divertente, perché credo che l’immaginazione del lettore vada molto oltre la realtà, sia molto più “sporca” delle intenzioni dello scrittore.
Ne La cena, avevo inserito una battuta che è rimasta a metà: “Perché due cinesi non possono andare insieme dal parrucchiere?”: ancora oggi, nelle interviste, mi chiedono il perché ed io rispondo che non lo so! E’ un vuoto che non è stato ancora riempito.
- Per concludere, vorrei riprendere la stessa domanda fatta a uno dei protagonisti del romanzo: “Ha la sensazione che la sua migliore opera debba ancora arrivare?”. Sarà il successo di pubblico a decretarla o una sua sensazione personale?
Io spero di sì, ma non lo posso sapere e non penso al mio lavoro in questi termini. Quando si hanno venticinque o trent’anni, si pensa che il miglior romanzo debba ancora arrivare. Ma alla mia età, sono felice quando ho la consapevolezza di aver scritto un libro diverso, o più complesso, rispetto a quelli che lo hanno preceduto, perché non voglio ripetermi. E’ sempre una sfida: il libro che sto scrivendo adesso sarà diverso da questo, e questo è diverso sia da Villetta con piscina, sia da La cena, che potevano sembrare un poco più simili fra di loro. Non so se il migliore deve ancora arrivare, ma so che sarà diverso: mi voglio rinnovare ad ogni libro.
Quanto al successo, io seguo l’istinto, ma non è facile dimenticare completamente il pubblico e ciò che vuole mentre si scrive, perché non è possibile ignorare le sue reazioni: ci sarà qualcuno che dirà di aver divorato il tuo libro ed altri che non riusciranno neppure a finirlo!
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Herman Koch, in libreria con “Caro signor M.”
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