Jane Harris è nata a Belfast in una famiglia irlandese di grandi narratori di storie divertenti e di aneddoti. Laureata in inglese e in teatro presso l’università di Glasgow, ha intrapreso – e poi interrotto – la carriera di attrice e cantante. Dopo diversi lavori d’ufficio e non (ha fatto anche la cameriera d’albergo), è approdata alla scrittura con una serie di racconti che sono apparsi in numerose antologie e riviste. Autrice di cortometraggi premiati nei maggiori concorsi cinematografici internazionali, con Neri Pozza Jane Harris ha pubblicato “Le osservazioni” (2006) e “I Gillespie” (2012), mentre è da poco uscito, sempre per Neri Pozza, “Sugar Money”, un avvincente romanzo storico, ispirato a una vicenda realmente accaduta tra la Martinica e Grenada nel dicembre del 1765.
Lucien e suo fratello Emile, schiavi creoli, vengono inviati da padre Cléophas a Grenada. Lì, dovranno convincere i quarantadue schiavi rimasti sotto il dominio inglese dopo l’occupazione – ma che apparterrebbero di diritto ai frati – a fuggire e a ritornare in Martinica con loro, la notte della vigilia di Natale.
In questa intervista a Jane Harris, approfondiamo alcuni interessanti aspetti della sua scrittura e del suo nuovo romanzo.
- Dal suo ultimo romanzo sono passati cinque anni: che cosa è successo nel frattempo?
Vuole la storia vera, la verità? Una serie di tragedie personali: la morte di mia madre, la morte di mio padre, la fine del mio matrimonio durato venticinque anni, il cancro, la menopausa.
Può bastare?
Ma sono ancora qua! È questa per me la vera sorpresa e ne sono ben felice: essere ancora viva, anche se c’è stato questo momento molto difficile.
Per scrivere questo libro ho impiegato lo stesso tempo degli altri che lo hanno preceduto, anche se come numero di pagine è la metà.
Come dicevo, sono successe tante cose nella mia vita, anzi la vita è successa!
- Mi spiace: avevo notato che tra il secondo e il terzo romanzo era trascorso pressappoco lo stesso tempo che fra il primo e il secondo, ma pensavo fosse l’intervallo necessario per sviluppare una prima idea e procedere poi alla scrittura…
Questo libro sarebbe potuto uscire molto prima se non mi fosse successo tutto quello che le ho raccontato, anche se in generale mi serve molto tempo per scrivere i miei libri, proprio perché di solito sono romanzi storici, ambientati nel passato. Occorre molta ricerca e documentazione e io tendo a perdermi in questa fase, perché amo la ricerca e mi piace perdermi tra le cartine, le mappe, le foto, le immagini, i ritratti, i documenti… Comunque, sicuramente, la gestazione è durata più a lungo di quanto avesse dovuto, perché io sono una personalità anale: cerco tutti i dettagli, tutto deve essere preciso e perfetto.
- Come si è imbattuta in questa storia, che è basata su una vicenda realmente accaduta?
Prima di pubblicare il mio primo romanzo, il denaro scarseggiava; con il mio primo compenso, abbiamo deciso di fare una vacanza, dopo tanti anni che non ne facevamo. Avevo da sempre voluto visitare Grenada, ma avevo anche paura di volare; tuttavia, avevo i soldi per permettermi un’ipnoterapia, per farmi passare questa fobia e per prendere un aereo. Su quest’isola siamo stati un mese, durante il quale ho letto molti libri di storia e mi sono imbattuta in quello che era un semplice paragrafo in cui veniva raccontata la versione più breve della storia che poi si sviluppa nel mio romanzo. Ciò che mi ha veramente affascinato è il fatto che ci fosse qualcuno che aveva ingaggiato degli schiavi che dovevano andare dalla Martinica a Grenada per rubare altri schiavi che erano di proprietà degli inglesi, dei cattivi.
Due cose in particolare mi hanno sorpreso: innanzitutto che uomini di chiesa avessero degli schiavi, e poi che ci fosse la storia di questo giovanotto così coraggioso che intraprende un viaggio di questo genere.
Nel mio romanzo ho voluto esplorare chi fosse veramente quest’uomo.
- Rispetto ai primi due romanzi, c’è stato un grande cambiamento nell’ambientazione – dalle atmosfere tipicamente inglesi ai Caraibi: può approfondire il rapporto uomo-natura in questo nuovo contesto, dove emerge il contrasto fra una natura ricca e lussureggiante e tuttavia spesso ostile?
È un contrasto molto interessante quello che lei ha descritto perché sì, su quell’isola, la natura è estremamente bella, ma c’è anche un clima ostile, soprattutto per chi è costretto a lavorare. Io ho potuto fare lo stesso viaggio dei miei personaggi, accompagnata da una guida locale, un simpatico settantenne, in splendida forma, che se ne andava in giro con in mano un machete. Noi abbiamo fatto questa attraversata dell’isola di giorno, non di notte, a differenza degli schiavi, e ci abbiamo impiegato qualche ora. Non si tratta in realtà di un lungo viaggio, ma abbiamo comunque riscontrato questo clima veramente penalizzante, il sole spietato che si alternava alla pioggia.
Ed è lì che ho capito molte cose riguardo ai miei personaggi, perché noi potevamo fermarci all’ombra e non eravamo costretti a lavorare.
Quest’isola è un luogo incredibile: da una parte abbiamo la natura lussureggiante, tropicale, bellissima; dall’altra, la consapevolezza che lì sono accadute le cose più terribili. Credo che questo fatto abbia condizionato le mie ricerche: in quel periodo, ho letto molti romanzi ambientati a Grenada, e ho fatto del mio meglio per descrivere questo paesaggio – forse persino troppo, perché mi aveva colpito –, ma l’ho descritto non solo attraverso gli occhi del protagonista, attraverso il punto di vista di Lucien, ma anche attraverso i miei occhi.
- In effetti, un altro grande cambiamento, sempre rispetto ai due precedenti romanzi ed alle due protagoniste femminili, è costituito dal punto di vista di un adolescente maschio. Come lo ha costruito?
Non lo so, davvero. Ho solo cercato di pensare a lui. C’è un po’ di me in questo personaggio, soprattutto nel rapporto col fratello maggiore, che ricalca quello che io ho con mia sorella, il modo di scherzare che avevo anche con mio marito – anzi, ex marito. Un rapporto stretto, non sempre è positivo: ci sono litigi, ci si stuzzica a vicenda… Quindi, Lucien ha attinto dalla mia esperienza personale, e poi c’è questo suo desiderio forte di crescere, di diventare come il fratello, forte e coraggioso come lui. Una volta avuta questa questa idea, ho accettato la sfida e ho iniziato a scrivere con quella che ritenevo fosse la sua voce; in seguito ho mostrato quello che avevo fatto - qualche capitolo - a degli esperti, a degli scrittori dei Caraibi, che mi hanno dato il loro benestare. Spero sia convincente: se mi avessero detto che non funzionava, avrei smesso, avrei lasciato perdere.
- Come è riuscita a mantenere un equilibrio perfetto fra la parte storica, la parte di finzione e questa voce credibile e incredibile, nello stesso tempo?
Grazie per questa storia dell’equilibrio, che prendo per un complimento! In effetti, quello che io faccio, come prima cosa, è mettermi nei panni del mio personaggio, come è successo per “I Gillespie”: ci sono io e la mia immaginazione. In questo caso, ho usato quello che sapevo e che era, in realtà, molto poco, perché gli archivi contengono solo qualche lettera, ma non viene descritto in modo preciso che cosa è successo. Non c’è, ad esempio, nemmeno un nome che viene attribuito al personaggio che io ho chiamato Emile, se non “il mulatto”. Lucien, ovviamente, è una mia invenzione, perché non volevo mandare questo mulatto per mare da solo e gli ho affiancato il fratello minore. Poi ho pensato che, una volta a Grenada, non avrebbero potuto incontrare un gruppo di quaranta schiavi, perché sarebbe stato impossibile gestire una scena di questo genere. Quindi ho scelto un gruppo più piccolo, anche perché comunque gli schiavi venivano separati a seconda delle loro mansioni. Il resto, l’ho trovato nella documentazione cui ho attinto, come i dodici nomi di schiavi che ho utilizzato: Angélique, Chevallier, Augustin, Léontine, Vincent, Zabette, Saturnin…, e in base a quello che mi suonava nella testa, nel sentire questi nomi, ho inventato i personaggi e la storia. Angélique Le Vieux era naturalmente un’anziana, lo stesso per Chevallier, mentre Leontine, Vincent e LeJeune mi sembravano più giovani. Ho usato i nomi per sbrigliare, per così dire, la mia immaginazione. E poi ho pensato a quelli che potevano essere i rapporti fra Emile, Lucien e gli altri personaggi, così li ho fatti tornare da schiavi che già conoscevano e in più ho regalato questo cuore infranto a Emile che mi ha permesso di inventare Céleste.
Quindi ci sono alcuni, pochi, fatti di base, e molta invenzione.
Tutto dal punto di vista di Lucien: se Emile è più vecchio, più saggio e sa come funziona la vita, il fratello, invece, ha uno sguardo innocente e il lettore scopre le cose man mano che le scopre Lucien.
- In questo romanzo ci sono tantissimi temi: l’amore, l’amicizia, la schiavitù e tutti gli orrori che questa ha comportato… Vorrei chiederle di soffermarsi sul tema dell’obbedienza, che lega – senza anticipare nulla al lettore – l’inizio e la fine di “Sugar Money”: una sorta di rassegnazione dovuta al “non avere scelta” degli schiavi.
La domanda è interessante, perché è vero che ci sono tanti temi in questo romanzo: c’è l’amore, il rapporto fra fratelli, l’amicizia e poi, naturalmente, il traffico e lo sfruttamento di esseri umani.
Volevo, innanzitutto, raccontare una storia di persone.
Mentre gli altri romanzi sono ambientati nella sfera domestica, qui, oltre ai protagonisti, c’è tutto un coro di personaggi che fa da sfondo e, ancora più ampio, è lo sfondo rappresentato dalla schiavitù.
Io credo che le storie migliori siano quelle che hanno come sfondo la vicenda storica più ampia e in primo piano la vicenda personale di pochi personaggi: non avrei mai potuto scrivere un romanzo che trattasse solo il tema della schiavitù, preferisco trame più intime.
Poi, naturalmente, c’è il tema dell’obbedienza che mi ha attratto fin dall’inizio, proprio perché questi schiavi, effettivamente, non avevano scelta.
Pensiamo a questi monaci che danno l’ordine di andare su un’altra isola, rubare altri schiavi e riportarli indietro, senza che i due abbiano un’altra possibilità. Questo mi è stato utile per la trama: Emile, in quanto schiavo, non ha scelta, ma non è uno stupido – mai avrebbero affidato un tale incarico ad uno stupido. Proprio per questo, comincia a pensare, a riflettere, e scopre che potrebbero avere altre alternative: scappare, liberarsi, oppure arrendersi e consegnarsi agli inglesi, passando così dall’altra parte.
Il piano finale che sceglieranno, però, è l’unico possibile e realizzabile.
Non di meno va considerato il fatto che nella realtà Emile riesce, grazie al suo coraggio ed alla sua intelligenza, a persuadere gli altri schiavi a fuggire: un elemento importante che ho dedotto e che fa capire come la situazione a Grenada fosse peggiore rispetto alla Martinica.
Nella documentazione c’è proprio l’affermazione
“Io sono uno schiavo, non ho scelta”.
In questo senso, nella mia mente, Emile è diventato eroe: avrebbe potuto scappare - immagino - ma non lo ha fatto.
Per concludere, ho inserito anche l’episodio in cui il giovane salva la vita di un ufficiale, perché era vero che in quel periodo gli schiavi venivano arruolati per combattere in guerra, e perché fornisce un’ulteriore caratteristica del carattere di questo personaggio.
- Se c’è un messaggio, in “Sugar Money” – e sono sicura che c’è –, quale può essere l’insegnamento di questa vicenda all’uomo moderno?
Non ho pensato a un messaggio, quando mi sono accinta a scrivere questo romanzo, ma dopo averlo scritto, alla luce di quello che è il mondo moderno, non posso fare a meno di pensare che ci sono ancora ben quaranta milioni di schiavi: quelli che sono incatenati ad un’attività che li sfrutta, i bambini costretti a lavorare, chi si deve rassegnare a un matrimoni combinato… Questo avviene in tanti paesi – che non sono solo quelli lontani come ci immaginiamo –, ma anche qui in Italia e in Gran Bretagna. Quindi, sicuramente non avevo un messaggio ben preciso all’inizio, ma potrebbe essere il fatto che la schiavitù non appartiene assolutamente al passato, non va associata agli abiti lunghi delle signore sulla copertina del mio romanzo, ma esiste ancora, anche se sotto forme diverse.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Jane Harris, in libreria con “Sugar Money”
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