Michela Marzano, nata a Roma nel 1970, ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Filosofia. È autrice di numerosi saggi e articoli di filosofia morale e politica. In Italia ha pubblicato, tra gli altri, Estensione del dominio della manipolazione (2009), Sii bella e stai zitta (2010), Volevo essere una farfalla (2011), Avere fiducia (2012). Direttrice del Dipartimento di Scienze Sociali (SHS - Sorbona) e professore ordinario all’Université Paris Descartes, dirige una collana di saggi filosofici per le Edizioni PUF e collabora con il quotidiano La Repubblica. Adesso è deputato al Parlamento italiano tra i banchi del Partito Democratico.
Nel novembre del 2013 è uscito L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore (Utet), vincitore della 62esima edizione del Premio Bancarella di Pontremoli (Massa Carrara).
Partendo da un verso di una poesia di Emily Dickinson, l’autrice analizza il sentimento d’amore al quale ciascuno di noi non è immune, giacché
“la vita sorprende, non la puoi controllare. E l’amore appare quando meno te lo aspetti. Forse perché non parla il linguaggio della razionalità e delle evidenze”.
La bambina Michela sognava l’amore leggendo storie perfette, fiabe dove il lieto fine era assicurato convinta che una volta diventata adulta avrebbe incontrato un uomo capace di riparare le piccole e grandi crepe quotidiane. L’esistenza non poteva accontentarsi di litigi e fratture. “Doveva luccicare”. Ma la vita con le fiabe non c’entra nulla e Michela Marzano l’ha dovuto imparare come tutti, sulla propria pelle, “... il principe azzurro non esiste e si è costretti a scendere a patti con la realtà”.
Il volume dedicato “A Jacques, l’unico che mi ama sempre così come sono. Ad Arturo, che mi sopporta da quando ero bambina. A Ferruccio, che non smetterò mai di amare. A Dario, che nonostante tutto mi fa sorridere”, metà saggio e metà educazione sentimentale, racconta con maestria e lucida spietatezza quel vuoto che ci portiamo dentro dalla nascita che nessun innamorato/a potrà mai colmare e quei paradossi del cuore così misteriosi, così insondabili.
“In amore, come nella vita, non si dovrebbero mai avere aspettative troppo alte. Forse non ci si dovrebbe aspettare proprio niente, visto che le cose più belle arrivano sempre all’improvviso”.
- “Che l’amore sia tutto quel che c’è, è ciò che noi sappiamo dell’amore. E ci basta se il carico è proporzionato al contenitore”. Onorevole Marzano, per quale motivo ha scelto questo verso di una poesia di Emily Dickinson come esergo del volume?
Ho scelto questo verso perché, oltre a essere molto bello, permette subito al lettore di capire di quale amore parlerò nel libro. Di libri sull’amore, d’altronde, ce ne sono già tanti. In nessuno, però, mi sembrava di aver trovato le risposte che cercavo. Ecco perché, come già nel caso di “Volevo essere una farfalla”, anche in questo libro cerco di partire dalla mia esperienza personale, per poi affrontare le questioni che ogni persona si pone quando s’interroga sull’amore: quando comincia l’amore? Quando finisce? Che cosa possiamo chiedere e che cosa, invece, non potremo mai ottenere? Perché quando si ama, si ha sempre paura? Ecco perché l’amore di cui parlo in “L’amore è tutto”, è l’amore quotidiano, reale, concreto. Il problema di fronte al quale siamo oggi, infatti, non è tanto di descrivere l’amore assoluto e ideale, quanto di spiegare che cosa vuol dire incontrare una persona capace di regalarci la libertà di essere noi stessi, senza domandarci di cambiare o essere diversi da quello che siamo. Un amore che però, a differenza della passione, quando “accade”, poi dura per sempre. Anche se la storia s’interrompe, lui se ne va via o lei tradisce.
- Nel volume scrive che tante cose che Le sono successe sono state la conseguenza “più o meno inevitabile di quei pomeriggi passati a costruire reami di carta”. È forse una provocazione asserire che non dovremmo più far leggere le fiabe alle nostre figlie per non creare in loro false illusioni?
Non ho niente contro le fiabe, al contrario. Quello che voglio dire è solo che l’amore, quello vero, è sempre sinonimo di autenticità e di riconoscimento. Quell’autenticità e quel riconoscimento che si conquistano quando si smette di volere, pretendere, di cercare e di recriminare. Quel sentimento di benessere che ci invade quando capiamo che, anche se non siamo perfetti, è proprio con noi che “lui” o “lei” vogliono vivere. Amare significa imparare ad attraversare quel vuoto che ci si porta dentro – perché nessuno di noi è “tutto” o ha “tutto”, e c’è sempre qualcosa di assente che ci perseguita – senza chiedere all’altra persona di riparare le nostre ferite. Amare significa imparare ad accettarsi come si è, senza più sforzarci di essere quello che “dovremmo essere”.
- “Il problema dell’amore è sempre lo stesso. Quando lo si idealizza, lo si tradisce. Quando si è dentro, ci si impantana”. Desidera chiarire la Sua riflessione?
Quello che voglio dire è che l’amore di cui parlo nasce quando ci si rende conto che, nonostante tutto, è solo con “lui” o “lei” che si riesce a essere autenticamente se stessi. Imperfetti e pieni di manie. Difficili. Talvolta anche insopportabili. Sapendo che l’altro non ci apparterrà mai nonostante gli sforzi che possiamo fare per tenerlo sempre accanto a noi. Vincolati a un desiderio che è sempre desiderio di altro, come direbbe Jacques Lacan, rispetto a ciò che una persona ci può dare. Ecco perché le contingenze della vita possono poco nei confronti dell’amore. Come quando si diventa adulti e i nostri genitori si ammalano. E prima o poi se ne vanno via. Mentre l’amore che ci lega a loro non finisce. Esattamente come l’amore per un uomo o per una donna.
- “La fecondazione eterologa sarà inserita nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) in sede di prossimo aggiornamento” ha dichiarato il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, in audizione in commissione Affari sociali alla Camera, aggiungendo che sarà destinata una “quota del Fondo sanitario nazionale per permettere la procreazione assistita eterologa nei centri pubblici”. In una nota Lei ha affermato che “resta tuttavia il nodo centrale dell’anonimato dei donatori e delle donatrici di gameti”. Che cosa si potrebbe fare in tal senso?
Dietro la questione dell’anonimato c’è quella del diritto a conoscere le proprie origini. Come ci ricorda però la sentenza del 18 novembre 2013 della Corte Costituzionale, permettere a un figlio di conoscere le proprie origini significa soprattutto permettergli di “accedere alla propria storia parentale”. E quando si parla di storia, non si parla certo di “codice genetico”, a meno di immaginare che il codice genetico ci racconti la storia dei nostri genitori. Quella storia che li ha portati a desideraci o meno, a volerci crescere e darci o meno affetto, a trasmetterci o meno valori e principi. Il caso dei bambini adottati, in questo senso, non ha niente a che vedere con quello dei bambini nati grazie a un’inseminazione eterologa. Nell’adozione c’è sempre la storia di un abbandono. Storia cui è sicuramente importante avere accesso, anche solo per poter fare il lutto di quest’abbandono. Ma quale abbandono ci sarebbe nel caso di chi è nato grazie ad un dono di gameti? La storia parentale, in questo caso, non è forse quella di chi, sterile, desiderava a tal punto avere un figlio che è ricorso a un dono di gameti?
- In un articolo su La Repubblica, Natalia Aspesi, in risposta alla polemica americana scatenata dall’hashtag womenagainstfeminism e dalle foto di giovani donne che si sono fatte ritrarre con slogan contro il femminismo, ha elencato i tanti motivi per i quali “non possiamo non dirci femministe”. Secondo Lei il sessismo prevale ancora in Occidente e nel nostro Paese, considerato che recenti dati Istat e Inps hanno rilevato che le pensioni maschili sono circa il 14% in più di quelle femminili?
Su questo punto sono d’accordo con Natalia Aspesi. I motivi per i quali “non possiamo non dirci femministe” sono ancora molti. Se si pensa al lavoro, nonostante le molteplici leggi che si sono susseguite negli ultimi cinquant’anni, l’occupazione delle donne in Italia è ancora tra le più basse in Europa. Certo, il numero delle imprenditrici e delle lavoratrici autonome è in costante aumento. Il tasso di inattività femminile, però, resta al 48,5% a fronte di una media europea del 35,1%. Le donne continuano a guadagnare di meno rispetto agli uomini, hanno difficoltà ad accedere a posizioni di responsabilità, e sono ancora le prime ad abbandonare il lavoro per dedicarsi alla famiglia e ai figli. Nonostante le “azioni positive” e le “quote rosa” nei consigli di amministrazione e in politica, non si riesce a mettere fine alla maledizione del “soffitto di cristallo”, quella barriera a prima vista invisibile ma, di fatto, molto resistente, che impedisce a tante donne di arrivare allo stesso livello economico e sociale degli uomini. Non si tratta, infatti, di un problema legato solo all’assenza di servizi adeguati di welfare, ma anche alla persistenza di stereotipi e di pregiudizi. Considerazioni analoghe valgono purtroppo anche per quanto riguarda alcune leggi finalizzate alla salvaguardia della salute delle donne. Basti pensare alla legge n. 194 sull’IVG. Nonostante la finalità della legge sia di mettere fine alla clandestinità degli aborti garantendo a tutte le donne la possibilità di interrompere le gravidanze indesiderate gratuitamente e nelle strutture pubbliche, molte donne si trovano, di fatto, discriminate. In alcuni ospedali, il tasso degli obiettori di coscienza è superiore all’80%, costringendo le donne a spostarsi da una regione all’altra o, addirittura, a recarsi all’estero. Il problema, oggi, non è più quello della legittimità o meno dell’aborto, quanto quello di permettere effettivamente a tutte quelle che lo desiderano, ne hanno bisogno e lo chiedono, di poter avere accesso ai servizi. A che serve d’altronde una legge se poi non viene applicata ovunque nello stesso modo?
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Michela Marzano, vincitrice del Premio Bancarella 2014
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