Nota traduttrice e prolifica scrittrice in Albania, Mimoza Hysa è in libreria con Le figlie del generale (Besa, 2022, trad. Taci Durim), un romanzo coinvolgente, a sfondo psicologico, che segna il suo esordio in Italia. Nell’intervista che ci ha gentilmente concesso, Hysa si racconta come scrittrice e traduttrice, spiegando la genesi del suo libro.
- Quando e perché decide di scrivere Le figlie del generale?
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Le storie nascono dalle domande mai esaurite, quelle per cui non trovi le risposte, cercandole per tutta la vita. Uno dei miei interrogativi ha riguardato il muro che ha diviso la mia vita a metà: prima degli anni Novanta e dopo gli anni Novanta. Ho vissuto fino a vent’anni sotto la dittatura e il giorno dopo la caduta “dovevo” percepire la sensazione di essere libera. Non succede così in realtà: ti senti come liberata da un peso, ma non sai capire bene le opportunità della libertà, non sai capire cos’è cambiato in te da oggi al domani. Tu sei la stessa persona sia prima che dopo la caduta, con le stesse debolezze e virtù, con una certa concezione della vita e del mondo. La grande storia fa da cornice alla tua esistenza, mentre tutto si svolge dentro le mura di casa, dentro la tua famiglia e nel tuo circondario. Volevo dare un quadro di quel periodo tramite le sensazioni che si provano, tramite le relazioni tra la gente: com’era l’amore, i legami familiari, la vita quotidiana prima della caduta della dittatura. Lo volevo fare entrando nel cuore delle famiglie del Blocco comunista. Le cose che fanno la differenza si percepiscono a malapena: il bene e il male stanno insieme come carne e ossa. I comunisti di quel periodo erano padri di famiglia, mariti innamorati, uomini in carriera con tutti i pregi e i difetti di qualsiasi persona. Quello che faceva la differenza era quanto Hannah Arendt ha definito come la banalità del male, il fatto di non mettere in discussione la linea del partito, il modo di vivere e la struttura del male. Per capire meglio quel periodo e me stessa, ho inventato due figure: quella che pone domande e quella che sa sempre le risposte, Marsina e Martina, le due gemelle.
- In chi si identifica maggiormente? In Martina o in Marsina?
In entrambe, in diversi periodi della mia vita. Martina è la figlia degna del generale che incarna la “banalità del male”, sempre convinta delle sue scelte. È la persona che sa le risposte anche quando non sono necessarie – come dice Marsina nel libro. Quest’ultima, invece, è la persona che mette tutto in dubbio, sa sollevare domande, di quelle imprevedibili e rischiose. Con il passar del tempo, anch’io ho capito che la tendenza a mettere tutto in dubbio, a cercare ovunque la sensibilità umana, è la chiave della mia salvezza, è la cosa che ha dato significato alla mia vita e alla mia scrittura.
- Il regime è onnipresente, ma lei fa la scelta originale del "parlo non parlo". Come mai?
Non volevo scrivere di dittatura, desideravo narrare della vita umana oltre i sistemi politici. Puoi interpretare un intero regime partendo da una semplice cellula, da una vita qualsiasi. È un’operazione, però, che richiede la massima attenzione, perché mettendo la lente d’ingrandimento in un microcosmo non vuol dire che si possa facilmente arrivare a conclusioni per il macrocosmo. Per esempio, per una madre che perde il suo unico figlio mentre attraversa il mare alla ricerca di una vita migliore, non è importante che stia vivendo in un sistema democratico o in un sistema dittatoriale. Ella mette la vita di suo figlio davanti a tutto, comunque sia. Sceglierebbe forse il manicomio della dittatura, invece della morte da eroe o da persona libera. Nel romanzo c’è un personaggio di periferia, la madre di Jeton, che sacrifica i propri valori per salvare il figlio, sceglie la sua vergogna, la perdita di dignità per poter avere vivo suo figlio. È giustificabile una tale scelta? La mia generazione è cresciuta con la dottrina dell’eroe per le grandi cause, che, purtroppo e spesso, sono risultate sbagliate. Il romanzo cerca di mettere in dubbio anche i rapporti così delicati. La grande storia ha richiesto sempre degli eroi, del sangue umano per le sue battaglie e questa cosa ha pesato sulle vite della gente semplice. La letteratura scruta oltre le convinzioni, oltre gli eroi, i numeri e gli eventi storici, cerca di capire le piccole e grandi ingiustizie di qualsiasi periodo, per poter dare un significato alle sofferenze di tutti, alla vita di ognuno e salvare lo spirito umano.
- Lei è una capace traduttrice. Quanto questo ruolo influenza la stesura dei suoi libri?
La traduzione per me è stata una pista di allenamento, una scuola di scrittura: mi ha aiutato a conoscere meglio il processo creativo, le tecniche e lo stile. In un certo modo la traduzione è riscrivere una storia nota nella propria lingua, una riscrittura sotto dettato. Oltre a questo, traducendo i grandi scrittori e quei libri che hanno riscosso l’accoglimento dei lettori, mi sono chiesta se veramente valesse la pena dire la mia, far conoscere al lettore le mie storie. Alla fine mi sono arresa: quando una storia ti perseguita e sei sicura che manca nella biblioteca dei lettori, allora non hai scampo e inizi a scrivere.
- Quanto è vero, secondo lei, il detto che ogni libro tradotto è un po’, anche, del traduttore?
Ho ascoltato per la prima volta questa cosa dalla voce di Claudio Magris, quando è venuto a Tirana per la promozione del libro L’infinito viaggiare, tradotto da me. Mi sembrava presuntuoso pretenderlo, anche se lo pensavo. Innanzitutto, il ruolo di coautore bisogna meritarlo, è un lungo processo in cui si fa di tutto per nascondere il proprio egoismo e per imparare a rispettare l’autore, stando nel ruolo della sua ombra. Si impara a seguirlo, facendo il massimo per metterlo in buona luce. Soltanto quando si saprà fare bene l’invisibile, si potrà meritare di essere coautore dell’opera che si traduce. Si lavora sul filo del rasoio, imparando prima di tutto a sacrificare se stessi per l’altro, a essere altruista. Solo in questo modo ci si può arricchire e cogliere l’occasione di impreziosire la propria di scrittura. Se questo non si fa bene, il rischio è di una mancata riuscita a 360 gradi.
- Ha già idea di quale libro pubblicherà ancora in Italia?
Non voglio fare grandi sogni: spero tanto che il lettore italiano legga Le figlie del generale e se veramente apprezzerà la mia scrittura, avrò tante altre cose da dire. Per me, è soltanto l’inizio di una lunga conversazione con i lettori dall’altra parte dell’Adriatico: forse fino a oggi siamo stati considerati come individui “speciali”, diversi, un po’ “esotici” e questo ha attirato l’attenzione che ci è mancata per decenni. Per me è importante far sapere che siamo fatti della stessa pasta, con la fortuna di essere “cucinati” in modo diverso dalla storia.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Mimoza Hysa, in libreria con “Le figlie del generale”
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