Lo conosciamo come l’autore de L’Amalassunta (Giunti, 2015), il romanzo che ci svela la turbolenta vita del pittore marchigiano Osvaldo Licini, tra alti, bassi e visioni conformi al suo essere poeta e artista della vita stessa - inclusa la morte, ça va sans dire.
Eppure Pier Franco Brandimarte è molto di più: è scultore della parola, visionario anch’egli delle sfumature dell’esistenza, scrittore, quindi, del mistero, dell’oblio, dell’impercettibile.
Abbiamo voluto indagare le modalità con cui Brandimarte ha dato vita a questo testo così complesso, così ricco, metaforicamente ostico a tratti, eppure tanto magico ed ammaliante, ed abbiamo voluto scoprire qualcosa di più proprio su questo giovanissimo autore di origini marchigiano-abruzzesi e sul suo avvicinamento all’arte di Osvaldo Licini.
- Da dove nasce l’esigenza di scrivere un libro su Osvaldo Licini, un libro che, oltretutto, non è biografia vera e propria, né tantomeno saggio sulle opere del pittore di Montevidone? Cosa ti ha spinto a trattare un tema così complesso, a suo modo?
Il libro si accumulava in un limbo ipotetico, un limbo in pendenza, aspettando una spintina. Per saltare di metafora in metafora avevo un sasso da gettare e aspettavo un stagno, ma forse è meglio dire viceversa, cioè che avevo uno stagno – diciamo una porzione d’acqua, ché stagno fa pensare al ristagno. Insomma Licini ha fatto da combustibile (ecco un’altra metafora) e nel poco tempo d’esposizione al suo lavoro, quella volta che per caso mi trovai a Monte Vidon Corrado, provai un bellissimo senso di smarrimento e attrazione, come quando ci s’innamora: non capendo che m’era successo provai a svolgere quell’intensità per arrivare a una risposta, pagina dopo pagina; e il libro cominciò a muoversi, a precipitare. Che poi le cose che ci piacciono, a capirle, ci rivelano.
- Licini nel libro è come un’immagine, un’ombra che emerge di tanto in tanto, ma che, al contempo, è la base stessa del romanzo, ovviamente. Assomiglia un po’ ai suoi quadri: misteriosi, sofferti e inafferrabili. Cosa ti ha colpito più di ogni altra della pittura di Osvaldo Licini? E perché?
Mi ha colpito la potenzialità liberatoria, enigmatica. I suoi quadri erano allo stesso tempo disciplinati e vaghi, facevano partecipare la tua fantasia, ingaggiavano un gioco di scoperta, un inseguimento. Il suo segno alludeva, faceva riconoscere e allo stesso tempo portava fuori strada. Le associazioni fioccavano e così le atmosfere, e venivano convocati oggetti apparentemente estranei a cui porre domande, e tutto era campato in aria e poi improvvisamente si strutturava come un’architettura. La spiegazione migliore di un’opera d’arte può essere l’opera d’arte che ne consegue, può essere un suono, una poesia, la critica più azzeccata può essere un racconto o un elenco, un’equazione. Navigare in questa congerie è un’esperienza avventurosa.
- Nel romanzo si fa cenno lungamente al rapporto tra Modigliani e Licini, un rapporto in parte burrascoso e mai del tutto armonioso, forse per i caratteri stessi dei protagonisti. Quanto Modigliani ha influenzato Licini nelle sue scelte artistiche? E quanto dal punto di vista personale, dei percorsi di vita?
Licini e Modigliani furono, a quanto pare, soprattutto amici. I primi contrasti tra loro derivano da questioni politiche, Licini partì in guerra volontario, Modigliani fu riformato e poi sostenne le ragioni dell’astensionismo filo anarchico e socialista, da quanto si capisce dal loro primo incontro in un café parigino – episodio raccontato dallo stesso Licini. Sono evidenti delle vicinanze stilistiche, come è evidente l’influenza di altri pittori francesi soprattutto nei primi lavori di Licini, penso a Dufy, a Friesz, certo a Cezanne, insomma Licini studiò alla scuola di Parigi, conobbe e frequento molti dei suoi protagonisti, le analisi critiche sottolineano e analizzano molti di questi crediti. Dal punto di vista umano, con Modigliani, Licini condivideva la passione sfrenata per l’arte, l’anelito ribelle contro il mondo che può isolare e consumare. I loro destini furono diversi, ma è certo che quasi un secolo fa camminarono insieme e tirarono tardi come due compagni.
- Che cos’è L’Amalassunta e perché hai scelto proprio questo titolo per il libro? Cosa rappresenta?
L’Amalassunta è in definitiva un enigma. E’ una forma, è il titolo di un soggetto ricorrente nell’ultima fase pittorica di Licini che si può definire semplicemente come una luna, ma che non si esaurisce nei termini lunari consueti andando a toccare le polarità della meraviglia, stupore e terrore, un approccio al divino complesso che, letteralmente, gioca con l’Assunta virandola alla dimensione barbarica al di là della statuaria o statuettaria conforme, per recuperarne il lato misterico; e se di luna si vuole parlare allora il lato oscuro, e se di forma si vuole parlare allora qualcosa che cambia forma in continuazione: basta guardare, mettersi davanti a questi quadri, aspettare, avere pazienza e qualcosa succederà, cominceremo a inseguire, a tremare, a cadere, ecc.
- All’interno del libro dai la parola anche ad altri artisti che hanno fatto la storia dell’arte del Novecento: oltre a Modigliani penso a Morandi, Vespignani, i futuristi in generale. Per elaborare un testo di questo tipo, che tipo di preparazione c’è alle spalle? Quali sono stati i testi di riferimento che hai utilizzato?
C’è stato un periodo di studio e documentazione che è servito per calarmi il più possibile nell’occhio, per così dire, e nel tempo che stavo tentando di raggiungere, un’esposizione a qualsiasi tipo di fonte mi capitasse, dai manuali ai cataloghi, alle lettere, ai documenti e memoriali di artisti coevi, all’esplorazione di luoghi: in questa fase ho accumulato, galleggiando tra il dato preciso e la tendenza spontanea alla divagazione e all’intuizione ispirata dal cumulo nel suo cumularsi. Di sicuro sono stati importanti le opere di Licini, l’arte senza spiegazioni, la contemplazione di quella, poi gli scritti di Licini, poi il materiale critico, e di lì ogni cosa che poteva collegarsi all’argomento, fino agli orari dei treni locali del 1926. Poi a un certo punto, fatto lo strato, si mollano gli ormeggi, e si va. Mi dimentico adesso la gran parte delle cose che ho letto e studiato in quel periodo. E parlo anche di testi letterari, filosofici, un giorno ti viene voglia di quella cosa che magari non serve ma per qualche sotterraneo passaggio è riaffiorata a un certo punto. Poi ti metti a studiare quell’altra cosa e ci passi settimane e scrivi e poi via, non è servita, ma magari senza quella non avresti accoppiato quell’aggettivo a quel sostantivo, e così un libro che si scrive è sempre la storia di quel pezzo di vita in cui lo si scrive, penso che debba rimanere il più possibile poroso, ricettivo. Un giorno sono andato al mare, è stata una bella giornata, mi sono anche abbronzato il giusto e da lì è venuto un paragrafo importante, e allora dovrei dire che mi sono preparato andando al mare.
- “(…) la mia era voglia d’indeterminato, d’inconcluso, voglia di giocare eternamente coi possibili, di evadere la forma. Ciò che pure, nella sua opera sfuggente, Licini era riuscito a rendere tangibile e concreto. Era questo il segreto del suo segno: un segno per ciò che non si vede. Un paradosso”. È questa l’essenza dell’opera di Osvaldo Licini? E Ninì, la voce narrante del libro (possiamo azzardare che si avverte un certo guizzo autobiografico?), come si relaziona al grande pittore marchigiano? Quale insegnamento ne trae, se di insegnamento si può parlare?
Come dicevo, il farsi del libro andava di pari passo con quanto riuscivo a capire, e il procedimento di scoperta interessava me, il narratore e di conseguenza lo scritto. Spesso ci sono delle aderenze, delle intuizioni più marcate nella vita dei due personaggi che spiegano meglio il loro procedere in comune, il loro rifrangersi uno nell’altro, e il pezzo che citi è uno di questi, il carattere dell’uno, per quanto sia parziale e artificiosa questa ricostruzione, ha molto in comune con l’altro, e questo vivere a cavallo tra realtà e finzione, in una finzione concreta come la realtà e viceversa, questo impasto che si riconosce nell’opera del pittore e nel comportamento del narratore è la base dello scritto, il terreno comune che, appunto per questo, è stilisticamente conforme a questo sentire, è fatto così, non si limita all’enunciazione di qualcosa in comune ma vive di quella. Non so se è chiaro, ma insomma, Licini è divenuto un simbolo per qualcun altro, al di là della sua biografia e del sua carriera artistica, è trasmigrato. Nel migliore dei casi è trasmigrato – che poi ci sono modi migliori per dirlo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Pier Franco Brandimarte: Montevidone, la pittura di Osvaldo Licini e la visionarietà
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