Simona Baldelli è nata a Pesaro e vive vicino Roma. Attrice teatrale, è stata drammaturga e regista. Il suo primo libro “Evelina e le fate” (Giunti) è stato finalista al Premio Italo Calvino 2012 e vincitore del Premio letterario John Fante Opera Prima 2013.
“Il tempo bambino” (Giunti, 2014) è stato finalista al Premio letterario Città di Gubbio. Nel 2016 ha pubblicato “È facile vivere bene nelle Marche se sai cosa fare” (Newton Compton) e “La vita a rovescio” sulla figura di Caterina Vizzani, vissuta nel 1735 che per otto anni vestì abiti da uomo. Nel 2018 è uscito “L’ultimo spartito di Rossini” (Piemme). Da poco è in libreria con “Vicolo dell’Immaginario” (Sellerio).
- Il tuo ultimo libro, “Vicolo dell’Immaginario”, è talmente ’visivo" che alcuni lettori legittimamente dicono di aver visto un libro. Era nelle tue intenzioni scriverlo come se si fosse a teatro a guardare una pièce?
Sì, l’intenzione era un po’ questa. La mia origine, se così posso esprimermi, è teatrale. Ho lavorato in teatro per lungo tempo come attrice e in seguito come regista e drammaturga e me n’è restato l’imprinting. Organizzo le mie storie come se fossero una messinscena. In cinema e teatro c’è un detto: show, don’t tell (mostralo, non dirlo), suggerimento per me valido anche in letteratura. Preferisco che i miei personaggi esprimano emozioni e sentimenti attraverso le azioni che compiono, piuttosto che raccontare i loro pensieri.
- Com’è nato il titolo e quanto ci hai messo a scriverlo? I dialoghi sono appropriati e pertinenti. Sembri una scrittrice che ha in massimo orrore i dialoghi strappati via, banali, inconcludenti.
La nascita del titolo (e, conseguentemente del romanzo) è del tutto casuale. Mi trovavo a Lisbona ed ero a bordo dell’electrico (i tram che attraversano la città) diretta al quartiere dell’Alfama. La strada si restringe e un piccolo mezzo occupa i binari. Il tram si ferma, il conducente suona, nessuno viene a rimuovere il veicolo. Non potendo procedere, il conducente apre le portiere e ci fa scendere. Mi ritrovo in un buco fra le case, come dico nel romanzo, uno spazio di circa due metri per quattro, delimitato da due case ai lati e un muro sul fondo. Alzo gli occhi e vedo una targa con su scritto BECO DO IMAGINARIO. Non conosco il portoghese ma la traduzione mi sembra semplice: Vicolo dell’Immaginario. Lì per lì mi viene da ridere all’idea che quel buco sia un vicolo e abbia persino un nome. Ma poi penso che sarebbe un titolo bellissimo per un romanzo. Appena formulo l’idea, ho la sensazione di avere qualcuno accanto a me, e mi sussurra una storia all’orecchio. Mi chiede di scriverla e mi suggerisce il percorso lungo cui si snoda. Accendo la piccola telecamera che avevo con me e percorro a piedi il tragitto indicato mentre filmo le strade e dico nel microfono la storia che mi pare di ascoltare. Quando arrivo in Praça do Comercio, sulla riva del Tago, nella telecamera ho già registrato tutta l’ossatura del romanzo. Una volta tornata a casa ho riversato il file e ho ascoltato il racconto. Mi pareva un po’ pazzo, ma molto suggestivo, affascinante. Il più era fatto e la stesura del romanzo è risultata abbastanza veloce, pochi mesi.
In quanto ai dialoghi, mi torna in aiuto la frequentazione del teatro e l’esperienza di attrice. So quanto sia difficile pronunciare dialoghi improbabili, troppo intellettuali o esageratamente buttati via. E, certamente, bisogna tener conto della principale funzione del dialogo, dare informazioni in maniera non pedante, o aggiungere un particolare sulla psicologia o la biografia del personaggio. Pronuncio quindi la battuta a voce alta, più volte, finché non trovo quella che a me pare la giusta misura.
- Ci parli del libro precedente, “L’ultimo spartito di Rossini”? Tu e Rossini siete nati entrambi a Pesaro. Chi va a Pesaro ha la sensazione che Rossini e le sue arie siano dappertutto.
L’ultimo spartito di Rossini è uscito lo scorso anno, il 2018, in occasione del 150mo della morte del grande compositore. Un’operazione faticosa e folle, specialmente per una pesarese, perché la prima domanda che ci si pone di fronte alla pagina bianca è: cosa si può scrivere di un personaggio di cui si è già detto tutto? Che appartiene all’immaginario collettivo, non solo dei melomani, e specialmente nell’anno rossiniano? È stato, probabilmente, l’artista più famoso e osannato di ogni tempo, e già nel corso della sua esistenza. Tutti volevano frequentare quel musicista gioviale, dalla scrittura facile (compose Il Barbiere di Siviglia in meno di due settimane, ad esempio), la battuta pronta, amante della buona tavola. E così viene ricordato ancor oggi: un ilare opportunista, un bonne vivant. Ma, di fatto, smise di scrivere opere a 37 anni, se si eccettuano alcuni componimenti di musica sacra e strumentale. Cosa lo portò al silenzio? Ho analizzato gli aspetti più dolorosi e complessi della sua personalità, della psiche, perlopiù sconosciuti e profondamente umani, che Rossini cercò di dissimulare per tutta la vita, e lo fece tanto bene da passare alla storia come un allegro buontempone. A questa immagine contribuì, in larga parte, La vita di Rossini di Stendhal, che il musicista definì più volte “ce grand menteur” (il gran bugiardo). Le fandonie di Stendhal su Rossini mi diedero la chiave di lettura del romanzo e l’occasione di inserire temi a cui tenevo molto e dei quali sentivo l’urgenza, fra i maggiori della nostra quotidianità, come la diffamazione a mezzo stampa, l’invidia (le bufale e l’odio sociale da leoni da tastiera, diremmo oggi). Sì, a Pesaro tutto parla di Rossini, ogni cosa ha un’eco della sua presenza. Per me, è la testimonianza del mio DNA materiale e culturale. Siamo fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni, scriveva Shakespeare, ma anche dei prodotti della terra di cui ci siamo nutriti e su cui abbiamo mosso i primi passi, i luoghi su cui abbiamo aperto gli occhi e forgiato il nostro senso estetico, il criterio di bellezza. Sul dialetto e i primi suoni che abbiamo ascoltato, si è fondato il nostro privato senso di musicalità. A Pesaro, siamo tutti un po’ composti della medesima pasta di Gioachino Rossini. O, almeno, mi piace pensare così.
- Quando hai finito il tuo primo libro pubblicato, “Evelina e le fate”, eri contenta della tua scrittura? Sapevi già che avresti continuato a scrivere e a pubblicare?
Sì, ne ero molto contenta. Non per la qualità del romanzo in sé, ma perché era esattamente come desideravo che fosse. Evelina e le fate è una storia cui tenevo (e tengo) moltissimo, perché appartiene alla mia storia personale, (la Evelina del titolo è mia madre e quasi tutti gli altri personaggi sono di famiglia o persone che ho conosciuto). Volevo fosse esattamente così, tragico e comico allo stesso tempo; con una vena surreale necessaria a mio parere per raccontare la crudeltà della guerra vista con gli occhi di una bambina di cinque anni; l’uso del mio dialetto per i dialoghi; vicende e presenze che i bambini protagonisti descrivono come fate. Non avrei mai pensato che a quel romanzo ne sarebbero seguiti altri, ma ammetto di averlo scritto con l’idea di pubblicarlo. Non volevo restasse nel mio cassetto.
- I libri italiani recenti sanno descrivere il nostro periodo storico? Non trovi che escano troppi libri con vita breve? C’è qualche scrittore nuovo che ti ha impressionato positivamente?
Per raccontare bene un contesto storico, incluso il nostro presente, bisogna fare, a mio parere, un passo indietro, o avanti, o laterale, insomma, guardare da una giusta distanza, come facciamo con un quadro per avere una visione d’insieme. I romanzi storici, a mio parere, sanno parlare del presente molto meglio di quelli ambientati nell’esatto momento in cui escono dalla penna dello scrittore, il quale non ha ancora avuto il tempo di capire, analizzare, il fatto appena accaduto. Il procedimento funziona, secondo me, anche con un’ambientazione di fantasia, fantascienza addirittura. I racconti di Philip Dick, per esempio, fotografano perfettamente l’epoca in cui sono stati creati, spingendo lo sguardo verso il futuro. Occorre allontanarsi dal soggetto, per avere un occhio lungo. Purtroppo, però, c’è un ottuso pensiero che vuole che i romanzi storici o distopici, siano una sorta di figli di un dio minore, di genere, di scarso valore letterario. Gli autori, specialmente i più giovani, si sentono quindi spinti a raccontare esclusivamente la loro contemporaneità, spesso e volentieri attingendo solamente dalla proprio quotidiano, dando vita a storie destinate a un respiro corto. Ma è un errore generalizzare e, per fortuna, qua e là vi sono delle ottime eccezioni.
Sì, certamente, escono troppi libri, e molti sono frettolosi, scritti ed editati senza cura, esibiti senza criterio. Non so quale sia il motivo, visto che si legge sempre meno e, da un punto commerciale, pare un’assurdità ampliare l’offerta quando scarseggia la domanda. Alcuni suggeriscono sia a causa del sistema di distribuzione, che spinge a una sovrapproduzione di titoli. La vita breve di un romanzo è la diretta conseguenza di quest’abbondanza. L’anno scorso sono usciti più di 60.000 titoli (solo italiani), come è possibile trovare spazio nelle biblioteche, librerie, festival, per tutti?
Fra i nuovi autori seguo con molto interesse e ammirazione Andrea Tarabbia e Letizia Pezzali. Se esco dai nostri confini, torno in Portogallo per leggere la bravissima Dulce Maria Cardoso.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista alla scrittrice Simona Baldelli
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