Io n. 1211
- Autore: Dagmar Simkovà
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Edizioni Paoline
- Anno di pubblicazione: 2013
Io, prigioniera nell’inferno delle carceri comuniste in Cecoslovacchia.
Quattordici anni nelle prigioni della Cecoslovacchia comunista. Diventano un’autobiografia che sembra un film dell’orrore: “Io n. 1211”, edizioni Paoline, 200 pagine, 17 euro. Quando Dagmar Šimkovà è tornata in libertà, nel 1966, il Ministero dell’Interno tratteneva una parte della modesta paga da operaia nella fabbrica di bibite dove aveva trovato occupazione. Salario ridotto, per risarcire le spese dello Stato nella sua detenzione. Era figlia di un banchiere, una borghese, per questo sospetta nella società sovietizzata dal colpo di stato stalinista del 1948. È morta nel 1995 in Australia, dove si era trasferita, lasciando il suo Paese dopo la repressione della Primavera di Praga, il progetto di democratizzazione stroncato nell’agosto 1968 dalle truppe corazzate del Patto di Varsavia. Però ha raccontato tutto in quello che oggi è proposto come libro-diario-testimonianza-narrazione, nella collana Uomini e Donne delle Paoline.
Dagmar-Dasa era una intellettuale, una brava disegnatrice satirica, anche se lavorava in ospedale al momento dell’arresto, nell’autunno del 1952. Erano venuti in sei nella villa paterna, a Pisek, dove abitava ancora, sebbene la socializzazione della proprietà privata l’avesse relegata con la madre in una sola camera. L’uso della cucina era in comune con gli altri inquilini dello Stato coi quali divideva la palazzina.
Gli agenti in borghese si erano mostrati fin troppo gentili, addirittura cavallereschi. Le avevano chiesto di seguirli per rispondere a poche domande, assicurando che si trattava di una banale esigenza di precisazione o poco più. Ma uscendo verso l’auto, uno le aveva mostrato il vero volto del regime, sussurrando con disprezzo: sgualdrina reazionaria, guardati intorno, qui non ci tornerai per tutta la vita.
La colpa? Vilipendio della fede comunista, ma soprattutto libertà di pensiero: aveva diffuso volantini di critica del regime marxista e disegnato manifesti che offendevano lo Stato. Un crimine. La condanna a 15 anni di reclusione sembra comunque sproporzionata rispetto all’accusa di aver canzonato il comunismo, ma la sua pericolosità risiedeva nell’aver favorito il tentativo di fuga all’estero di due studenti in cerca della democrazia. Li aveva ospitati per un paio di giorni.
La ricostruzione dell’inferno detentivo in cui è precipitata, viene condotta con un tono franco, narrativo, asciutto, senza rancore. Dasa ha affrontato con estremo coraggio un regime carcerario abominevole. Non si piegava, pagando pesantemente questo atteggiamento, tanto da non godere di un’amnistia nel 1960, perchè troppo autonoma e affatto rieducata.
Tutto era studiato per mettere in difficoltà i reclusi. Di notte, la luce sempre accesa, con le lampadine posizionate in modo da infastidire gli occhi. Per il resto solo buio. Gli spostamenti avvenivano con gli occhi bendati o in corridoi non illuminati, per provocare spaesamento, specie quando le conducevano a un interrogatorio. A letto dovevano assumere una posizione fissa e mantenerla rigorosamente, a costo di richiami urlati dalle guardie. Le condizioni igieniche erano proibitive, un camicione informe, calzoni senza bottoni o lacci, capelli unti, sporcizia ovunque. In molti penitenziari mancavano le docce. Dove c’erano, l’acqua calda era una rara concessione.
Le compagne di cella? Dissenteria, cimici, infezioni, vizio, isteria e ingiustizia. Quanto a quelle in carne ed ossa, le detenute politiche erano odiate dalle comuni (ladre, assassine, prostitute, zingare), perchè senza di noi le condizioni sarebbero migliori per loro. Ci maledicono anche i carcerieri, perchè forse senza le anticomuniste presterebbero servizio nelle prigioni in città. In carcere e nei campi di lavoro capitava il paradosso di ex kapò dei lager nazisti detenute insieme alle loro vittime. E liberate prima di queste.
Fuori, le condizioni di vita restavano degne di uno Stato della cortina di ferro. Tradimento e delazione: anche la mamma venne reclusa, ma Dasa ironicamente considerava i prigionieri le persone più ricche della terra, perchè ormai non possono perdere più di quello che hanno già perso.
Nel 2010, a quindici anni dalla morte di Dagmar Šimkovà - che si era impegnata contro il terrore politico nel mondo, militando in Amnesty International – si è pensato di riconoscerle un’onorificenza, nel suo Paese democratizzato e restituito all’Europa comunitaria. Non risulta che le sia stata conferita.
Io n. 1211. Nell'inferno delle carceri comuniste cecoslovacche
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