Siamo soliti identificare Charlotte Brontë con la protagonista del suo romanzo capolavoro, Jane Eyre (1847); ma in realtà, scavando a fondo nella biografia della scrittrice inglese, si scoprono maggiori affinità tra lei e il personaggio, di certo più tragico, di Lucy Snowe, la voce narrante del suo ultimo romanzo Villette (1853).
Charlotte Brontë si spegneva il 31 marzo 1855, incinta del primo figlio, a causa di una grave bronchite. Si era da poco sposata con il reverendo Nicholls, ma quell’idillio gioioso ebbe breve durata, secondo i biografi le sue ultime parole sul letto di morte furono:
Che peccato morire ora, sono così felice!
Il suo ultimo romanzo, Villette, era stato acclamato dalla critica come la sua opera migliore; nonostante fosse stato il suo capolavoro Jane Eyre a consacrarla sulla scena letteraria dell’epoca vittoriana. È corretto individuare in Villette il romanzo più vero e autobiografico della maggiore delle sorelle Brontë?
Proviamo a mettere le due protagoniste a confronto, ad accostare la parabola di Lucy a quella di Jane, scoprendo analogie e differenze tra le eroine moderne create dalla penna superlativa di “Currer Bell” alias Charlotte Brontë.
La rivoluzione di Jane Eyre
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Il personaggio di Jane Eyre aveva rappresentato un punto di rottura con la tradizione romanzesca dell’Ottocento, presentandosi da subito come un’eroina rivoluzionaria: per la prima volta il ruolo da protagonista veniva affidato a una donna povera, non bella né ricca né affascinante, che si professava padrona della propria esistenza e non mirava a concludere un buon matrimonio. Secondo la critica Jane Eyre è da considerarsi un capolavoro perché nel romanzo viene espressa per la prima volta un’idea moderna di sé al femminile.
Scomponendo nei minimi termini la trama di Jane Eyre ora potremmo dire che le ragioni del successo del romanzo sono imputabili a cause plurime: prima di tutto l’atmosfera (Charlotte Brontë ci immerge sin da subito in un’atmosfera da letteratura gotica, in cui la tensione si fa crescente), poi le avventure vissute dalla protagonista (seguiamo Jane dalla sua infanzia drammatica in un orfanatrofio sino al suo arrivo nella misteriosa Thornfield Hall e oltre), l’elemento romantico (l’arrivo del signor Rochester dà una svolta cruciale all’intera trama) e, infine, dopo molte peripezie ecco la conclusione rasserenante.
A rendere il romanzo un vero e proprio caso letterario concorsero tutti questi elementi, a ben vedere piuttosto inverosimili: da abile narratrice quale era Charlotte Brontë infarcisce sapientemente le pagine di temi gotici (l’orfanatrofio; la soffitta dove vive una presenza misteriosa; il fantasma che di notte si aggira per la dimora; l’incendio; il signor Rochester presentato come un eroe byroniano). “L’interessante per mezzo”, avrebbe detto Alessandro Manzoni nella sua celebre Lettera sul romanticismo, e possiamo dire che la maggior delle sorelle Brontë lo prende in parola movimentando la trama attraverso gli espedienti più disparati. L’altra regola necessaria enunciata da Manzoni era “il vero per soggetto”, e su questo fu svolta un’abile operazione commerciale: ricordiamo infatti che Jane Eyre fu dato alle stampe con il sottotitolo Un’autobiografia nel tentativo di ribadire l’autenticità di un personaggio che, del resto, aveva tutte le carte in regola per apparire reale.
Ma Charlotte Brontë era Jane Eyre? Certamente la scrittrice diede alla sua protagonista la propria fisionomia, i suoi pensieri, la sua identità e persino i propri desideri più reconditi e inconfessabili. Nella realtà, però, lo sappiamo bene la vita di Charlotte fu molto diversa da quella di Jane: l’avventurosa parabola vissuta dalla protagonista, il sogno d’amore finalmente coronato, non trovano alcun riscontro nell’effettiva biografia di Brontë che, come sappiamo, si spense a meno di quarant’anni nella stessa cupa e inospitale brughiera inglese dove era nata.
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A Currer Bell (questo lo pseudonimo maschile con cui Brontë fu costretta dalle convenzioni dell’epoca a firmare il romanzo) dobbiamo tuttavia il merito di aver creato con Jane Eyre un’eroina rivoluzionaria ed estremamente moderna. La vera rivoluzione insita nel romanzo infatti non era nella trama - per quanto indubbiamente accattivante e ben costruita - ma nei pensieri della protagonista, nell’assoluta autenticità della voce narrativa. Per la prima volta una donna nelle pagine diceva “Io” e affermava il proprio desiderio di identità, di definizione e anche di potere.
Con fermezza Jane, in un punto centrale del libro, rifiuta il signor Rochester:
Non sono un uccello; e non c’è rete che possa intrappolarmi: sono una creatura umana libera, con una libera volontà, che ora esercito lasciandovi.
La rivoluzione di Jane Eyre è insita in questa dichiarazione. Le lettrici dell’Ottocento potevano rispecchiarsi in questa protagonista audace, volitiva, capace di definire e decidere da sé il proprio destino. Jane Eyre è la voce e l’unica protagonista del romanzo: leggendo siamo certi che lei, con o senza il signor Rochester, ce l’avrebbe fatta comunque, che è lei l’unica eroina della propria storia.
Nel finale del romanzo, infatti, è lei a salvare lui ribaltando il canone tradizionale della fiaba che vede la giovane donna riscattata dal bel principe azzurro. Jane torna da Rochester quando lui è cieco e malato e ha bisogno di lei: Edward è completamente alla sua mercé e lei, in conclusione, appare trionfante come l’eroina salvatrice. Dopo tante peripezie è lei a tornare a Thornfield - come se fosse in groppa a un cavallo bianco - e a conquistare il suo amore.
Jane Eyre trovava il senso del suo essere nella propria indipendenza, senza cercare l’approvazione altrui o della società. Ciò che rende iconico ed eterno il libro capolavoro di Charlotte Brontë è questa rivoluzione del sé: attraverso le sue pagine ci ha consegnato lo scintillio inestinguibile di una coscienza.
Villette o l’Angelo della tempesta
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Giungiamo ora all’ultimo romanzo di Charlotte Brontë, Villette, che presenta un interessante parallelismo con Jane Eyre.
La protagonista di quest’opera si chiama Lucy Snowe e sotto diversi aspetti è molto simile a Jane, proprio come lei è orfana, timida, sola e senza amici. Lucy è costretta dalle circostanze a trasferirsi in terra straniera (“Villette” è il nome della città in cui approda, lontano dall’Inghilterra, capitale dell’immaginario regno di Labassecour) dove risiede presso il collegio femminile di Madame Beck.
Proprio come Jane, Lucy prende in mano il proprio destino e lavora come istitutrice per guadagnarsi da vivere. La protagonista è una donna che lavora, riesce a guadagnarsi persino una promozione e ha un’intelligenza acuta, brillante, viva.
Tuttavia Lucy Snowe è indubbiamente un personaggio più amaro di Jane Eyre. Nel libro sono frequenti le sue critiche e i suoi giudizi severi nei confronti di colleghi insegnanti, studenti e altre persone che incontra lungo il cammino. Alcuni dicono che Lucy sia come Jane Eyre vista “attraverso un vetro scuro”. Cosa manca in Villette, che invece è presente in Jane Eyre?
Daremo una risposta molto antifemminista ma innegabile: l’amore. In Villette c’è un grande vuoto, che in Jane Eyre è colmato dalla presenza di Mr Rochester.
La narrazione di Charlotte Bronte in questo libro è meno immaginifica, più piatta, molto improntata sulla verità e la coerenza della trama. Diverse pagine sono dedicate ai pensieri di Lucy nei confronti della società e delle persone che la circondano. La protagonista riflette su temi fortemente introspettivi quali la solitudine, la malattia mentale, la morte: è come se ciò che in Jane Eyre era proiettato all’esterno (il fantasma, l’incendio, il mistero) in Villette si riverberasse come un’ombra scura e tetra all’interno dell’animo.
L’amore che Lucy scopre di provare per l’eccentrico professor Monsieur Paul Emanuel non è del tutto ricambiato, cosa che rende la protagonista una spettatrice passiva della propria vita sino al malinconico finale. Quando è costretta a separarsi dall’uomo amato Lucy Snowe sceglie senza troppi rimpianti la carriera: va a vivere da sola, fonda una scuola e sembra quasi gioire in cuor suo della lontananza di Monsieur Emanuel con il quale nel frattempo intrattiene una corrispondenza di lettere appassionate.
Neppure nelle ultime pagine Charlotte ci offre una vaga consolazione, anzi, spegne definitivamente ogni speranza raccontandoci il naufragio per mare di Paul Emanuel. Con clemenza, però, Lucy Snowe decide di omettere i dettagli della vicenda per non turbare i pensieri del lettore. Non c’è lieto fine, con una chiusa la scrittrice spegne ogni possibilità di salvezza o redenzione: una “selvaggia tempesta” giunge da sud-ovest e infuria per sette giorni (in un parallelismo analogo al tempo della Creazione) gettando il mondo di Lucy nel caos.
Nella conclusione ci viene beffardamente descritta la sorte di tutti i personaggi della vicenda, tranne che di M. Paul Emanuel:
Madame Beck prosperò tutti i giorni della sua vita; e così Padre Silas; Madame Walraven raggiunse i novant’anni prima di morire. Addio.
Per spiegare l’ambiguo finale in una lettera al suo editore, George Smith della Smith, Elder & Co, Charlotte scrisse:
Per quanto riguarda questo punto di così grande importanza – la sorte di Monsieur Paul – in caso che qualcuno in futuro chieda di essere illuminato in merito – gli si può dire che è stato fatto in modo che ogni lettore stabilisca da sé la propria catastrofe, secondo la qualità delle proprie inclinazioni.
Jane Eyre vs Villette: chi è la vera Charlotte Brontë?
Il fil rouge che lega Jane Eyre a Villette è l’esperienza vissuta da Charlotte Brontë in Belgio, come istitutrice al Pensionnat, dove conobbe Monsieur Heger, il grande amore non ricambiato che avrebbe in seguito ispirato la figura del signor Rochester.
La vera Charlotte Brontë è tuttavia rintracciabile nel personaggio più tragico e amaro di Lucy Snowe che, proprio come la scrittrice, nel 1842 attraversa il mare e lascia l’Inghilterra andando alla ricerca di sé stessa e del proprio posto nel mondo.
Nelle opinioni di Lucy possiamo inoltre rintracciare le idee di Charlotte stessa, che - lo ricordiamo - era comunque la figlia di un reverendo inglese e riflette pienamente il puritanesimo e le virtù del suo algido personaggio. Nelle riflessioni di Lucy Snowe sulla morte inoltre troviamo riflesso il vissuto personale dell’autrice che, in quel periodo, aveva assistito impotente alla scomparsa prematura dei suoi fratelli. In quei passaggi tristi e tuttavia vividi troviamo la vera voce di Charlotte Brontë e anche l’amarezza nei confronti della vita che si era fatta strada nel suo animo in seguito alle tragedie da lei vissute.
Nel finale malinconico e cupo di Villette troviamo anche l’epilogo della vita di Charlotte Brontë, il riflesso tragico di quel suo ultimo sospiro: Oh, I am not going to die, am I? Devo morire ora? chiese al marito Arthur Nicholls.
Nel romanzo era M. Emanuel a morire, nella vita Charlotte stessa, ma in entrambi i casi la scrittrice dava allo spettro fatale della morte l’ultima parola, la parola conclusiva.
Ritroviamo in Lucy Snowe la voce di una Jane Eyre adulta, più matura e consapevole del proprio destino; ma da lettori non potremo fare a meno di amare la voce di Jane che ci immerge anima e corpo in un mondo altro, parallelo, quasi immaginifico dove tutto, persino l’amore, è ancora possibile.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Le eroine moderne di Charlotte Brontë, da Jane Eyre a Villette:
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