Klaus Kinsky. Del Paganini e dei capricci
- Autore: Stefano Loparco
- Anno di pubblicazione: 2015
Mi piacciono i libri di Stefano Loparco. Li pubblica per la collana “Cinema” delle Edizioni Il Foglio e fa bene: se siete minimamente interessati a storie e controstorie del cinema-bis vi conviene darci un’occhiata. Tornando ai libri che scrive Loparco, questo è il terzo che mi capita di segnalare su Sololibri. Il primo (“Il corpo dei Settanta”) andava oltre la mera biografia, nel senso che inquadrava il corpo fenechiano (il corpo di Edwige Fenech, per intenderci) senza distogliere lo sguardo dal contesto trasversale degli anni Settanta che lo hanno vezzeggiato-veicolato. Il secondo libro di Loparco (“Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo”) faceva invece le pulci alla bio-filmografia del padre legittimo dei mondo movies, il Gualtiero Jacopetti col gusto della ripresa pruriginosa che per questo se le è tirate addosso tutte e di più. Quest’ultimo libro - “Klaus Kinsky. Del Paganini e dei capricci” - insiste sulla strada del rimosso cinematografico, vedendosela – udite!, udite! - con bipolarismi, genio e sregolatezze di Klaus Kinsky, uno che se ti capitava soltanto di incrociarne lo sguardo e a lui non girava (e a lui non girava quasi mai!) potevi farti in fretta il segno della croce e prepararti alla rissa. Kinsky è stato un polacco dal nome impronunciabile, Klaus Günter Karl Nakszynski, faceva per esteso. E’ stato - ancora - tutto e il contrario di tutto: attaccabrighe, talento (in)compreso, spendaccione, tenero, impossibile, sociopatico, uomo che amava le donne (sin troppo), Aguirre e Fitzcaraldo (per il superlativo Warner Herzog) ma anche Nosferatu a Venezia (sic!), la faccia mefistofelica di tanti b-western e giù di lì. Klaus Kinsky è stato senza alcun dubbio un narcisista patologico, matto come un cavallo ma anche istrione, attore nato, animale da palcoscenico, per cui il dubbio se c’era fino in fondo o ci faceva per dare linfa al personaggio, resta eccome. L’articolata disamina di Loparco divaga a latere del set di “Paganini” - il film più viscerale e incompreso del suo specifico, il suo ultimo film, il film della sua vita - ma (garantisco) non tralascia nulla su genesi, apoteosi e caduta libera di un interprete (in fondo solo e sempre di se stesso) tra i più ostici e fiammeggianti della cinematografia mondiale.
L’input che ha indotto Loparco ad occuparsene per questo libro è espresso chiaro e tondo sin dall’inizio (pagina 9):
“Con taglio biografico e senza tralasciare gli aspetti più ruvidi dell’esistenza off-limits di Kinsky, ‘Del Paganini e dei capricci’ intende comare una lacuna gettando una nuova luce – a volte sinistra – sul film più controverso dell’ultimo divo maledetto”.
Quindi prosegue, con una comparazione su cui c’è da riflettere:
“Perché se un taglio di Lucio Fontana è ‘anche’ un taglio, Kinsky Paganini è ‘anche’ un brutto film. Se lo è. Ma non solo”.
Alla penna ispirata di Loparco si aggiungono tra le pagine le testimonianze di prima mano di registi, maestranze e giornalisti che di Kinsky hanno attraversato (o tagliato?) la strada e la vita (litigandoci immancabilmente, prima o poi): Mario Caiano, Ernesto Guastaldi, Edoardo Margheriti, Gianfranco Parolini, Tatti Sanguineti, Debora Caprioglio, tra i tantissimi. Aldilà di qualche giudizio, spesso tranchant - detestabile, spregevole, amorale, fra gli altri - resto dell’idea che il diavolo non sia mai tanto brutto come lo si dipinge ma, forse, Klaus Linsky sì. Non so Loparco, ma io - a prescindere - sto dalla parte di George Hilton (attore uruguaiano) che una volta lo ha definito “il Carmelo Bene del cinema”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Klaus Kinsky. Del Paganini e dei capricci
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