L’animologo
- Autore: Antonia De Francesco
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2018
Se i preti sono i medici spirituali dell’anima, ci vorrebbe, per la cura delle anime, anche un medico laico: l’animologo. O forse ci vorrebbe (basterebbe) un amico, come cantava Venditti qualche tempo fa: Giorgio, il protagonista del romanzo L’animologo di Antonia De Francesco (Giovane Holden Edizioni, 2018), un amico sembra averlo trovato in Levante, mai conosciuto se non attraverso un carteggio che lo stesso intratteneva con la famiglia durante la Seconda guerra mondiale, mentre era al fronte, dove, per paradosso, si sentiva non più solo e sperduto del giovane protagonista del racconto.
Perché alla base di questa non-storia - "non", almeno, se per storia intendiamo uno svolgersi coerente di avvenimenti - c’è il tema dell’incomunicabilità, quella di Giorgio con il resto del mondo (soprattutto con suo padre), che ne ha fatto un ragazzo problematico, dedito all’autolesionismo, a una specie di autoreferenzialità distorta che anziché corroborarlo, anziché nutrirlo almeno di false aspettative, lo attrae sempre di più in un labirinto mentale dal quale non sa, e, quanto meno all’inizio, non dà l’impressione di voler uscire, tanto da tentare il suicidio.
Il romanzo di De Francesco si sviluppa tutto lungo l’itinerario interiore che porta lentamente Giorgio a ritrovare se stesso e quel gusto per la vita che egli sembra aver assaporato solo durante l’infanzia.
I rimandi all’infanzia sono ricorrenti, verrebbe da dire perfino morbosi, l’ancora di salvezza dei ricordi legati a un periodo della vita privo di responsabilità e di delusioni, in cui non ci si sente padroni della propria esistenza, ma ciò non ci pesa perché c’è sempre qualcuno (la mamma, nel caso di Giorgio, più di ogni altro) che decide al nostro posto e ci indirizza verso il giusto, e a noi non resta che seguire la strada che ci viene indicata, fiduciosi che sapremo trarne un gusto acerbo, tanto privo di certezze quanto colmo di speranze.
Si diceva, l’incomunicabilità. Per Giorgio essa è la conseguenza di una mancanza di spessore dell’esistenza che si riflette, appunto, anche sul linguaggio, che appare vacuo, superficiale, fugace come la sostanza che è costretto a veicolare.
Per contrasto, la vita grama, precaria, di Levante, quella che emerge dalle sue lettere di più di mezzo secolo prima, appare così ricca e feconda, così concreta, da palesarsi se non come un traguardo a cui tendere quanto meno come un punto di riferimento da cui trarre insegnamento.
Perfino l’erba bollita di cui si ciba, le mille lire ricevute una volta ogni tanto dalla famiglia come un piccolo tesoro insperato sottendono a un mondo che non esiste più ma che oggi ci appare così più autentico, colmo di affetto e di emozioni genuine più che di cose.
"Invidio Levante, invidio la sua capacità di scegliere la carta e l’inchiostro all’acquisto di un altro filone di pane: è evidente che le parole lo saziassero più dell’erba bollita".
Così si sfoga a un certo punto il protagonista, perché percepisce tutto il peso di quelle parole, tutta l’ineludibile forza dei sentimenti. Se le parole saziavano Levante, oggi per Giorgio le parole ci costringono a una forma di anoressia emozionale, quasi sempre mistificanti, fuorvianti come sono, usate a sproposito, con leggerezza (la leggerezza dell’insignificanza, non la levità dell’esprimersi con semplicità): le parole un tempo avevano un peso specifico elevato, costavano tantissimo e solo chi era pronto a pagarne il prezzo sapeva e poteva utilizzarle. Oggi le parole somigliano alle nuvole.
Antonia De Francesco sa che non dovrebbe essere così, e attraverso i suoi personaggi ci induce a riscoprire l’essenza più profonda del linguaggio, che è quella che ci connette al cuore, alla parte nascosta di noi stessi, più che a un mondo virtuale in cui tutto si arrende all’evidenza.
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