L’asilo di pietra
- Autore: Alessandro Bellomarini
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2022
Non è un romanzo fresco di stampa, però ha tanto da dire. Affronta un tema storico duro, le persecuzioni naziste, si addentra in un’atmosfera cupa e tuttavia allo stesso tempo labile, inafferrabile, tipica dei sogni, nasconde segreti, scheletri negli armadi e non solo. Pubblicato meno di un anno e mezzo fa, nel mai banale allestimento grafico delle torinesi Pathos Edizioni, L’asilo di pietra (novembre 2022, 408 pagine), è il terzo di Alessandro Bellomarini, scrittore, poeta, paroliere, sceneggiatore romano, parecchio under 40, autore di sillogi poetiche e riduzioni teatrali.
Assicura di avere scritto di Jana e Urs in pochi mesi e tuttavia da diversi anni la loro storia gli “danzava tra la testa e le costole” (il cuore, in senso figurato). Avrebbero avuto probabilmente nomi e vissuti diversi, però:
“Hanno deciso loro stessi quale destino percorrere”.
E sono vicende da leggere quasi senza mettere giù il libro fino alla fine, tanto è scritto in modo avvincente, come osserva Stefano Mancini nella prefazione.
È curioso e va registrato quello che Alessandro Bellomarini scrive in fondo alla pagina finale dei ringraziamenti, dopo aver reso conto delle ricerche, dei documentari visionati dell’Istituto Luce e dei confronti con esperti del nazifascimo serviti a contestualizzare luoghi, eventi e caratterizzare i personaggi. Ha rivolto un ringraziamento a se stesso, alla propria creatività e “abnegazione” nella scrittura.
“Senza la fantasia, tutta questa realtà che mi circonda sarebbe rimasta un buco nero troppo grande da colmare”.
Yana, Urs, Silva, soprattutto Klaus e Fritz, riportano l’autore e i lettori alle pagine di storia dell’Olocausto, del nazismo, della seconda guerra mondiale, che per noi restano righe a stampa ma per i protagonisti sono drammi in quella ch’è stata una tragedia.
Questo, infatti, è un altro di quei contributi che ci spingono a ripetere “Mai più!” quell’orrore.
Yana ha dieci anni e gioca con i coetanei anche al gelo sotto il Ponte Carlo, ma da quando a Praga sono arrivati quei soldati con la strana croce tutta spigoli sull’uniforme, la mamma le ha fatto cucire una stella gialla a sei punte sul cappotto e i bambini la guardano diversamente da prima. La tinta di quel simbolo israelita è opaca rispetto agli occhi azzurri della piccola ebrea praghese.
Quasi sessantanni dopo, Yana Kilmek indossa un tailleur e scarpe col tacco, si dà un filo di rossetto e fissa l’ombretto sugli occhi celesti, prima di concedersi al pubblico riunito nella sala conferenze dell’Università di Locarno, per la presentazione della sua più recente raccolta di poesie.
Non è affatto accomodante la dottoressa Kilmek, per gli atteggiamenti spigolosi, i silenzi improvvisi, l’ironia tagliente, l’espressione spesso fredda e cinica. Non si concede e rende difficile intervistarla o mantenere vivo il dialogo, in un convegno che pure la vede protagonista.
Glissa sul racconto della Notte dei cristalli a Praga e di tutto quello che ha passato. Dice di ritenerli ricordi noiosi, eppure concede una confidenza, qualcosa mai rivelato a nessuno: è nata ebrea, ma per un lungo periodo della vita è stata battezzata, pur non credendo in Gesù, nella Natività e in tutto il resto.
“Da poco ho ripreso tra le mani la stella di David: la stessa che mia madre una notte mi scuci dal petto”.
Col tempo ci si rende conto che le persone che odiamo maggiormente sono quelle più vicine, anche chi darebbe “la vita per te”. Il padre se n’era andato senza dire niente nel 1935, ma confessa di avere amato più lui della mamma, che invece l’ha protetta. Sono passati troppi anni dall’ultima volta che l’ha visto, era una bambina, però ha sempre conservato un’immagine in mente: il Borsalino e la giacca scura, con un forte profumo di naftalina. Quando l’avvertiva diffondersi dalle scale, significava che stava per rincasare da bottega, gli correva tra le braccia e si sentiva al sicuro.
Ed è un odore di naftalina quello che percepisce una volta rientrata a casa, Villa Kilmek, sulle Alpi svizzere, già Villa Keller. Un sentore familiare, come familiari sono il cappotto e il Borsalino che vede appesi all’attaccapanni, accanto alla sua giacca. Tutta colpa del whisky, avrà esagerato, Urs non sarà contento di trovarla in quello stato. Jana infatti ha di nuovo bisogno di lui, l’ha chiamato al telefono, chiedendo di raggiungerla.
Urs è l’ex ragazzo tenebroso, che a Locarno, fuori città, custodiva tanti segreti in un covo misterioso, il “bunker”.
È il figlio di Elisa Keller, la ricca e severa signora che nel 1938 ha di fatto adottato la ragazzina dopo la fuga da Praga la Notte dei cristalli, mentre i tedeschi uccidevano e rastrellavano anche nella capitale cecoslovacca. Il contrabbandiere di ebrei aveva tradito l’accordo a pagamento: sulla camionetta diretta in Svizzera era rimasto un posto solo e mamma Olda aveva obbligato la figlia a salire da sola, con il suo documento falso, il nome e cognome fittizi e senza la stella di David, strappata dal cappotto.
Non abbiamo detto che Jana ha un dono, vede i fantasmi. Non abbiamo accennato a Silva, l’amichetta praghese, né al singolare Fritz, che passa attraverso i muri (qualcuno da adulta la prenderà per pazza).
E non abbiamo menzionato l’onirometro del dottor Menghele, un apparecchio da fantascienza che induce nei soggetti un sonno REM con visioni oniriche e paranormali.
Con questo strumento entriamo nella dimensione effimera del sogno, dell’irreale, tanto congeniale a Alessandro Bellomarini ed efficace nel romanzo. Sì c’è tanta storia e amara realtà, ma pure immaginazione in questa narrazione caleidoscopica, sfaccettata, piena di riflessi, in cui nemmeno i buoni sono del tutto e soltanto buoni.
L'asilo di pietra
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