C’è un suono cupo che vibra nella notte, chiù; è il motivo conduttore della poesia di Giovanni Pascoli, L’assiuolo, e ciò che ci rivela l’identità celata del protagonista della lirica.
L’assiuolo fu pubblicata per la prima volta sulla rivista fiorentina di letteratura Il Marzocco nel 1897, in seguito fu inclusa nella raccolta Myricae (1891), nella quarta sezione intitolata Campagna.
L’uso reiterato dell’onomatopea chiù è uno dei motivi più affascinanti della poesia pascoliana: evoca un verso tetro, riversato nel buio della notte nel quale sembra prolungarsi con un’eco, che presto si tramuta in presagio.
Dobbiamo concentrarci proprio su questo suono per svelare il protagonista della lirica: il misterioso “assiuolo”, un uccello rapace simile alla civetta, che Pascoli tuttavia non descrive, ma si limita a evocare attraverso l’uso insistito dell’onomatopea.
La creatura animale che dà il titolo alla lirica racchiude anche un profondo significato simbolico che rappresenta la vera chiave di lettura dell’intera poesia.
Si tratta di una delle più belle poesie pascoliane per la sua capacità di creare una peculiare atmosfera: leggendo questi versi si avverte una sensazione crescente di inquietudine, il verso dell’uccello notturno si accorda al battito del cuore sino a suscitare un senso di attesa che Pascoli non delude traghettando il significato del componimento dalla descrizione fisica degli elementi naturali all’ambito metafisico.
Scopriamone testo, analisi e significato.
L’assiuolo di Giovanni Pascoli: testo
Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte...
chiù...
L’assiuolo di Giovanni Pascoli: parafrasi
Dove era finita la luna? Non si vedeva da quando il cielo era immerso nel chiarore ormai prossimo dell’alba. I rami del mandorlo e del melo parevano sollevarsi più in alto per cercarla. Dalle nubi divenute scure intanto rilucevano guizzi di lampi, che sembravano preannunciare un temporale imminente. Nel mentre giungeva un suono lontano, proveniente dai campi: chiù.
Rare stelle brillavano nel mezzo del chiarore diffuso dalla luna. Sentivo in lontananza il moto ondeggiante del mare, e i rami degli alberi agitati dal vento. Nel mio cuore vibrava un sussulto, che pareva essere l’eco di un dolore antico. Si sentiva di nuovo, in lontananza, quel pianto lontano: chiù.
Sulle cime degli alberi, illuminate dalla luce della luna, tremava un vento leggero. Le cavallette frinivano e battevano le ali facendo come risuonare sistri d’argento: erano forse campanelli posti sull’uscio di porte inaccessibili - le porte del Regno dei morti - che ormai, nel nostro tempo presente, non si aprono più?
Su tutto vibrava quel pianto funebre: chiù.
L’assiuolo di Giovanni Pascoli: analisi e commento
L’assiuolo di Pascoli si apre con una descrizione bucolica di vita campestre. La prima strofa sembra prefigurare un idillio: la luna riluce come un’alba perlacea tra i rami del mandorlo e del melo.
L’incipit si apre con un interrogativo funzionale alla descrizione paesaggistica “Dov’era la luna?” - il fatto che la luna venga evocata già ne suggerisce la presenza - e riflette l’atmosfera classica delle Egloghe virgiliane, la campagna che circonda i pastori. Nella lirica di Pascoli assistiamo, tuttavia, da subito a un brusco cambio di atmosfera. La quiete notturna viene infatti squarciata dai lampi di un temporale imminente e da un suono sinistro, insistente, che dilaga nella notte chiù.
È il verso di un uccello notturno, l’assiuolo, ma questo particolare ci è svelato da Pascoli solo nel titolo della lirica che riveste infatti un valore informativo. L’onomatopea chiù scandisce tutte le strofe della poesia, con una cadenza cupa che accresce un senso di angoscia nel lettore e dona alla lirica una struttura circolare.
Nella seconda strofa il punto di vista viene spostato alla prima persona: l’Io lirico riflette quella atmosfera notturna nel proprio cuore. Il battito del suo cuore sembra fare eco al verso dell’uccello che vibra nella notte. Il paesaggio esterno in cui si fa strada un temporale imminente diventa quindi riflesso di un paesaggio dell’anima. Pare quasi di assistere a uno scenario di sogno, non reale, che progressivamente si rovescia in un incubo.
Pascoli si serve dell’uso dell’onomatopea e del fonosimbolismo per accrescere nel lettore un sentimento inquietante di attesa: ogni elemento, in questa poesia, sembra vibrare, suonare, muoversi. Il verso cupo dell’uccello chiù ecco che si accompagna all’agitarsi dei rami mossi dal vento fru fru e si ripercuote nella vibrazione del cuore del poeta. Tutto pare alimentare un senso impalpabile di mistero.
Nella strofa finale si ritorna alla descrizione del paesaggio che tuttavia assume un connotato metafisico, quasi ultraterreno. La quarta strofa ha un valore prettamente simbolico: il verso cupo dell’uccello viene ad associarsi per similitudine alla morte. Il canto dell’assiuolo infatti, secondo antiche credenze, prefigura disgrazia ed è annuncio di morte. Pascoli lo annuncia con un rimando metaforico alle “porte invisibili che non si aprono più” che sembra dischiudere un varco tra il nostro mondo e l’aldilà. In questa notte infinita il poeta pare infine identificarsi con l’uccello, l’assiuolo. È solo con il suo dolore in questo mondo di tempesta che non consola, e non lenisce alcuna ferita. Il chiù desolato dell’assiuolo si identifica con il pianto del poeta.
Il verso dell’uccello, nella conclusione, assume infine un profondo significato simbolico perché sembra spalancare un portale temporale tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Il riferimento ai “sistri d’argento” - gli strumenti a percussione utilizzati nell’antico Egitto per il culto della dea Iside - rimanda all’ingresso dell’Oltretomba. Il suono dei sistri viene paragonato per analogia al frinire delle cavallette; ancora una volta Pascoli si serve del suono per riflettere il significato simbolico della lirica. Le porte dell’aldilà non sembrano aprirsi: forse non si aprono più? si domanda. L’intera atmosfera notturna diventa quindi evocazione di un mondo altro, di una dimensione parallela ai viventi.
Quel chiù che vibra nella notte ha una funzione intermediaria, che consente al poeta di comunicare con i suoi cari defunti.
Attraverso la rivelazione finale, che giunge inattesa, possiamo rileggere l’intera poesia come una riflessione sul mistero della morte. Giovanni Pascoli si serve del verso cupo dell’assiuolo per interrogarsi sul destino mortale dell’essere umano: l’intera lirica è pervasa dall’ombra di questo interrogativo insistito, che si riflette nell’onomatopea del verso del rapace chiù.
Il paesaggio lugubre, l’atmosfera notturna scossa dal temporale in arrivo diventano altro, si trasfigurano diventando presagio di morte.
L’assiuolo di Giovanni Pascoli: figure retoriche
- Metafora:“ l’alba di perla” per identificare il chiarore perlaceo della luna; un sospiro di vento; “squassavano le cavallette invisibili sistri d’argento”
- Sinestesia:“ soffi di lampi”;
- Allitterazioni: ripetizione delle consonanti “s; n; f” che amplificano il fonosimbolismo della lirica;
- Ipallage: “nero di nubi”;
- Similitudine: “com’eco d’un grido che fu”;
- Onomatopea: la ripetizione insistita di chiù; fru fru; squassavano è un verbo dal significato onomatopeico grazie alla ripetizione della sibilante “s”;
- Anafora: l’onomatopea chiù viene ripetuta, in maniera insistita, alla fine di ogni strofa e dona all’intera poesia una struttura circolare;
- Antitesi: “nero di nubi” in contrapposizione a “nebbia di latte”;
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