L’olivo e l’olivastro
- Autore: Vincenzo Consolo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2020
È del 1994, per i tipi della Mondadori, l’opera di Vincenzo Consolo dal titolo L’olivo e l’olivastro (anche se anticipazioni si trovano negli scritti “Retablo” e “Le pietre di pantalica”), in cui viene evidenziato il tema del degrado ambientale derivante dalla selvaggia società industriale: quella del profitto a ogni costo.
La scrittura, tra il saggio storico-geografico-letterario e la narrazione con un linguaggio che attinge dalla poesia, ha un andamento di anafore e di allitterazioni, di metafore e di enumerazioni. Rappresenta il viaggio d’Ulisse che il narrante solitario compie “per un itinerario di conoscenza e amore”: siamo nella cultura dell’Odissea, metafora della vita e del suo tragitto ha precisato l’autore nello scritto del 1999 Lo spazio in letteratura.
Difatti il secondo capitolo è dedicato alla riscrittura del viaggio penitenziale di Odisseo. “Spossato”, “lacero” e “in preda a smarrimento panico”, approda alla terra dei Feaci, trovando riparo “in una tana” situata “tra un olivo e un olivastro”.
Il contrasto vegetale ha un significato simbolico, così espresso:
[…] spuntano da uno stesso tronco due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una bilocazione di sentiero o di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura.
Il mito di vita e di morte è dunque un avvertimento perché gli uomini non smarriscano la lucidità della ragione senza la quale restano vittime dei loro mostri psichici. Delle paure e dei rimorsi.
A manifestarsi è la condizione dello scrittore data da un disorientamento totale, ove si consideri l’incipit del romanzo:
Ora non può narrare.
Siamo nell’afasia quale impossibilità di esprimersi e di comunicare, nata dallo sdegno civile e dall’abbrutimento dei luoghi della Sicilia, splendida un tempo e ora umiliata. L’interrogativo è inquietante:
Ma, oggi in questa nostra civiltà di massa, in questo mondo mediatico, esiste ancora la possibilità di scrivere il romanzo?
L’esilio di Consolo, scrive Giuseppe Traina, si fa autoesilio: “conseguenza del disgusto per l’invivibilità della Sicilia”, i cui responsabili sono la cultura di massa, l’omologazione, l’inerzia. Ecco il senso del peregrinare omerico: il viaggiatore disincantato che si estranea dal presente dominato da una disfatta complessiva.
È la violenza la realtà più vera che lo pervade ed è l’esule a configurarsi nella sofferenza dell’erranza, raccontando delle città di oggi, turbato dallo spettacolo di rovine. Emblematica l’esplosione della raffineria di Milazzo, di cui si parla nel terzo capitolo: testimonianza di un erroneo modello di sviluppo contrapposto alla “Bellissima Toscana contadina”.
Consolo si amareggia nel pensare che un tempo quella terra era stata uno dei più incantevoli teatri di Sicilia in cui cresceva il gelsomino dal delicato profumo e “pascolavano gli armenti del Sole”.
Il mitico territorio è ormai:
Una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica infernale città di Dite che tutto ha sconvolto e avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura.
Di tappa in tappa, di contrada in contrada “v’è una ripetizione ossessiva di sciagure per spietati gioco del caso”, mentre l’Odissea siciliana si mostra anche attraverso la stupenda rilettura dell’opera I Malavoglia:
Un poema narrativo, un’epica popolana, un’odissea chiusa, circolare, che dà il senso, nelle formule lessicali, nelle forme sintattiche, nel timbro monocorde, nel tono salmodiante, nei proverbi gravi e immutabili come sentenze giuridiche o versetti di sacre scritture, Bibbia, Talmud o Corano, dà il senso della mancanza di movimento, dell’assenza di sviluppo, suggerisce l’immagine della fissità: della predestinazione, della condanna, della pena senza rimedio.
Di finezza evocativa sono le notazioni su “Mastro-don Gesualdo” che aprono il capitolo VIII. Il fascino della grecità e le immagini del mito proseguono lungo strada per Siracusa “ai piedi del tavolato degli iblei” e “lungo la costa bianca e porosa di calcare”. Quand’ecco però apparire:
L’immenso inferno di ferro e fiamme, vapori e fumi, dentro fabbriche di cementi e concimi, acidi e diossine, centrali termoelettriche e raffinerie, dentro Melilli e Priolo di cilindri e piramidi, serbatoi di nafte, oli, benzine...
Di smarrimento e d’incanto, d’allucinazione e rapimento è l’osservazione del paesaggio della città di Augusta, dove, tra Megara Hyblea e la stazione preistorica di Thapsos, stanziarono i coloni “venuti da Micene, Megara, Nisca, Calcide, Corinto.
L’attenzione va al racconto “Lighea” di Tomasi di Lampedusa. In quelle acque al giovane studioso di dialetti ionici, apparve “emergendo dal mare, la creatura sublime e brutale, adolescente e millenaria, innocente e sapiente la sirena silene che invade e possiede trascina nelle immote dimore, negli abissi senza tempo, senza suono”.
Belle le pagine dal fascino immaginoso che descrivono la fondazione di Megara:
Qui presso il mare, tra il fiume Alabone e Selino, contadini, pescatori, artigiani megaresi trasportarono sulle loro barche, qui trapiantarono, vicino ai siculi indigeni, le loro credenze, i loro costumi e linguaggi.
Dinanzi al brutale spettacolo di una selvaggia e velenosa industrializzazione, a Melilli “le donne partorivano bambini deformi”; sono perciò le remote città a rappresentare, rispetto allo scempio del presente, gli archetipi della bellezza incontaminata: esprimono “un sogno, un mondo lontano, lontano dall’orrore del presente”. Nel decimo capitolo, dove si parla di Caltagirone (“alta sopra il colle che vorticando ascende fino al cielo”), suggestiona l’incontro del viaggiatore con l’amica Maria Attanasio: colta scrittrice e poetessa separata dal mondo perché:
Come tutti i poeti ama un altro mondo, un altro paese.
In tale occasione la coscienza ideologica è di rivolta contro il regime democristiano che ha generato la:
Feroce nuova Italia del massacro della memoria, dell’identità, della decenza e della civiltà.
L’enumerazione è un atto d’accusa implacabile che echeggia la posizione pasoliniana:
L’Italia corrotta, imbarbarita, del saccheggio, delle speculazioni della mafia, delle stragi, della droga, delle macchine, del calcio, della televisione e delle lotterie del chiasso e dei veleni. Il plastico dell’Italia che creerà altri orrori, altre mostruosità, altre ciclopiche demenze.
Struggenti le domande su Gela, “olivastro” e “frutto amaro”, “feto osceno del potere e del progresso”:
Cos’è successo, dio mio, cos’è successo a Gela, nell’isola, nel paese in questo atroce tempo? Cos’è successo a colui che qui scrive, complice a sua volta o inconsapevole assassino? Cos’è successo a te che stai leggendo?
Di fascino ineguagliabile al capitolo XI sono le immagini della Siracusa cui approdarono i Corinzi. Alla descrizione della città segue l’incontro di Caravaggio con Minniti e le associazioni vanno infine dal taglio della luce allo spettacolo del macabro ad opera del ceroplasta Zumm.
Suggestivo al capitolo successivo il procedimento memorialistico:
Ricordò i piccoli luoghi antichi e obliati, bagnati da quel Mediterraneo, ricordò Tindari, Solunto, Camarina, Eraclea, Mozia, Nora, e Argo, Thuburbo Majus, Cirene, Leptis Magna, Tipazia… Ricordò la spianata delle moschee avanti al porto, il bagno d’Algeri dove don Miguel scriveva l’ottava per il compagno riscattato e tornato a Monreale, per il poeta Antonio Veneziano… Ricordò, ricordò… Pensò d’essere divenuto un confuso uomo, un presbite di mente che guarda al remoto ormai perduto, vecchio e scontento, di non essere in quel mondo che ombra, sagoma di nebbia, spirito lento, anima ancora carica di spoglia, nostalgia, infimo Casella smarrito sulla marina che arditamente intona versi alti, canta “Amor che ne la mente mi ragiona” No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione.
Prosegue il cammino del viaggiatore-narrante per Avola, cittadina “apicola” e “laboriosa” dell’eccidio dei braccianti, sistemata al piano dopo il terremoto del 1693 che distrusse il Val di Noto. Dolcissimo l’incontro col sorridente frate belga Ugo Van Doorne. Consolo, accompagnato da Jano - il poeta e antropologo Sebastiano Brugaretta - si chiede come l’eremitaggio non abbia alterato minimamente le facoltà mentali di costui.
Impresso gli rimane il pacato suo linguaggio:
Parlava e parlava ed erano le sue parole d’un linguaggio chiuso, rarefatto, iterativo, circolare come un rosario, privo di consequenzialità, di svolgimento, privo di varchi, aperture verso il reale, il contingente. Un cielo, una sfera di spaesamento, di disagio, in cui, se privo di fede, non ti soccorre, trasporta come in Dante, il canto, la miracolosa poesia. Ce n’è altri di questi anacoreti, di questi anacronistici, assurdi angeli? Che sogno hanno in questa fine di millennio, quale messaggio, quale profezia proclamano?
Il degrado di Noto riporta il logos nel caos:
Il suo tufo dorato si è corroso, sfaldato, le sue architetture di stupore si sono incrinate, i fregi son crollati per vecchiezza, inquinamento, incuria, per le infinite, ricorrenti scosse del suolo.
A Segesta, ancorché dissacrata dagli incendi dolosi e dalle comitive chiassose, dimentica il presente, sogna di risvegliarsi sotto un altro cielo, prova sollievo nella fuga e nel rapimento, nell’abbandono al mistero del “più profondo nero”.
Nel viaggio verso l’occidente lo sguardo si fa visione e le visioni moltiplicano gli sguardi che colgono sia bellezze paesaggistiche che bruttezze di mafia a Palermo e a Trapani.
A prevalere è la notte della ragione e lo scrittore si volge indietro ripensando alla magnificenza dei commerci d’un tempo rispetto alle odierne crudeltà.
Esplicito è reso l’innamoramento di Consolo per Cefalù dalle radici arabe e normanne armoniosamente fuse e lì trova il ritratto dell’Ignoto:
Che un barone, un erudito, amante d’arte, aveva trovato nelle Eolie e insieme poi ad una sua raccolta aveva lasciato in dono al suo paese.
Contrappone la Trapani operosa a quella crudele dei mafiosi imperanti:
Entra nella Trapani del sale, del tonno e del corallo, nella città d’un tempo degli scambi, del porto affollato di velieri, della rotta per Tunisi e Algeri, della civiltà dei commerci, di banchi, di mercati, di ràbati e giudecche, di botteghe. Entra nella città caduta nel dominio delle logge, delle cosche mafiose più segrete e più feroci.
Non tace Consolo sui misfatti compiuti nell’Isola specialmente quando nel capitolo XVI parla dei tunisini di Mazara del Vallo, prendendo spunto dal terremoto del 7 giugno 1981 e delle migliaia di case della casbah poi demolite.
Nelle sferzanti pagine si leggono episodi di razzismo fascista, rivolti contro la prima migrazione maghrebina e contro gli omosessuali. Nel corso del primo anniversario del terremoto del Belice, al capitolo XVII s’incontra con gli scrittori e gli artisti civilmente impegnati:
Vide Carlo Levi, sentì le sue parole di speranza rivolte ai contadini intorno, vide il poeta Buttitta, il pittore Guttuso, Leonardo Sciascia.
Il tormentato viaggio di Odisseo termina a Gibellina da dove era iniziato con il racconto dell’esule-terremotato. Ad inquietarlo è la visione del nuovo paese:
Una mente perversa e servile ha ideato la prigione perfetta.
Il senso è chiaro, la metafora del percorso:
Consente a Consolo di ritrovare nel mito e nella letteratura un senso drammatico e complesso dell’esistenza personale e collettiva, non più legato ad alcuna ideologia di progresso della civiltà mediterranea. (M. Lollini, “Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo”, in “Italica”, LXXXXII, I, 2005).
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