L’ora di greco
- Autore: Han Kang
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2023
Si può scrivere un libro attraverso i silenzi? Han Kang con L’ora di greco (Adelphi, 2023, trad. Lia Iovenitti) compie un prodigio, creando una prosa poetica capace di dare voce all’indicibile, al non detto, al semplicemente “percepito”.
I protagonisti di questa storia sono un professore che sta perdendo la vista e una donna, sua allieva a un corso di greco, che in seguito a un trauma ha perso la facoltà - o forse sarebbe meglio dire “la volontà” - di parlare. Entrambi non hanno nome.
Attraverso questa apparente incomunicabilità la scrittrice coreana, vincitrice del Man Booker Prize con il bestseller La vegetariana (2016), intesse la sua storia con una scrittura sensibilissima che sembra riportare su carta la deprivazione sensoriale vissuta da entrambi i personaggi.
I dialoghi in questo libro sono pochissimi, tutto “parla” attraverso il silenzio. Il linguaggio stesso cambia, si fa via via più rarefatto, spezzato, si assottiglia finché la parola si riduce a frammento per rivelare due solitudini che si incontrano.
Sullo sfondo una Seoul rovente, descritta come una città preda di un’interminabile estate, che tuttavia al lettore sembrerà indicibilmente fredda, immersa in un’atmosfera invernale, ovattata e sospesa, proprio come la deprivazione sensoriale che la scrittrice riesce a mettere in atto attraverso la scrittura.
Nell’incipit viene citato Jorge Luis Borges: le parole inscritte sulla lapide dell’autore, che si trova a Ginevra, in Svizzera, sono “C’è una spada tra noi”. Borges lasciò scritta quella frase tra le sue ultime volontà espresse alla moglie Maria Kodama, che era stata anche sua assistente negli ultimi anni di vita.
Nella prima pagina de L’ora di greco di Han Kang il protagonista interpreta l’epitaffio di Borges come una metafora della perdita della vista: una spada si interpone tra la pupilla e il resto del mondo. In verità, proseguendo nella lettura comprendiamo che in quella frase iniziale “c’era una spada tra noi” è racchiuso in verità il tema chiave dell’intero romanzo, ovvero l’incomunicabilità.
Non si tratta di un caso. I riferimenti ai racconti dello “scrittore cieco” sono una costante nel testo: dopo un trauma iniziale sperimentato nell’adolescenza, la donna ritrova la voce udendo la parola francese “bibliotèque” ed è come un risveglio, per analogia ricorda i corridoi esagonali della Biblioteca di Babele di Borges che contengono un numero infinito di libri, così come potenzialmente infiniti sono i fonemi e le combinazioni del linguaggio.
Dietro il riaffiorare del mutismo della protagonista si cela la vera morale del libro: la ricerca dell’Aleph, la parola universale, che contiene metaforicamente “il Tutto” e simboleggia il soffio vitale.
Ecco dunque che “l’ora di greco”, in cui la protagonista ha la possibilità di apprendere la lingua di Platone, diventa un momento di liberazione, un processo di radicale ri-apprendimento della comunicazione: imparare a nominare di nuovo le cose per la prima volta, come nei primi incerti balbettii dell’infanzia, le permette di riacquisire la voce che ha perduto.
Costruzione e decostruzione appaiono come le spinte primigenie, originarie e generative del linguaggio. Lo stesso termine che in greco designa la cura, ovvero il rimedio contro una malattia, Pharmakon significa al contempo anche veleno e droga, come osserva anche il filosofo francese Jacques Derrida, padre del concetto di “decostruzionismo”. Il termine racchiude in sé entrambi i significati. Non è certamente un caso che nel Fedro di Platone la parola scritta venga definita Pharmakon, in un dialogo Socrate si interroga sul suo significato: ha il potere di uccidere la memoria oppure di prolungarla? Lo stesso interrogativo sulla parola come Pharmakon, intesa proprio nel suo duplice significato, è racchiuso tra le pagine di questo libro.
Han Kang ci conduce attraverso questa ricerca di senso servendosi solo in potenza di una lingua morta, come il greco, che in queste pagine appare più che mai viva e palpitante e adatta a dire l’infinita pluralità delle cose, che non sono mai ferme e immobili come le parole con le quali tentiamo invano di fissarle, di esprimerle, di trasmetterle.
Il greco, non a caso, è anche la lingua che ha forgiato la filosofia, il pensiero di Socrate - io so di non sapere - e del suo più diretto discepolo, Platone, che attraverso il mito della caverna - una delle narrazioni allegoriche più potenti mai scritte - avrebbe parlato del Mondo delle idee come fondamento ontologico del Mondo sensibile.
Tra i tanti momenti epifanici descritti nel romanzo ne troviamo uno particolarmente degno di nota: il protagonista propone una dimostrazione socratica dell’inesistenza di Dio, affermando che non può esistere un Dio “buono e onnipotente” se nel mondo ci sono il male e il dolore, ma viene smentito dalla ragazza sorda di cui è innamorato, lei si infuria, lo contraddice con veemenza e infine scarabocchia sul suo taccuino:
In tal caso, il mio è un Dio buono e triste!
Le parole sono scritte eppure traforano la pagina come un urlo. Un Dio “buono e triste” è forse quello in cui crediamo tutti, a cui affidiamo le nostre preghiere invisibili, dette a fior di labbra, come suppliche e canti di disperazione racchiusi in un’unica umana speranza: “liberaci dal male”.
Forse è proprio questa liberazione ciò che si compie nel finale de L’ora di greco, quando il silenzio smette di essere privazione ed ecco che “i cuori e le labbra si toccano, uniti ed eternamente separati”: il caos stridente delle parole non riesce a guarire il disordine del mondo, ma può cercare di articolarsi per dargli un senso.
Nulla meglio dello studio di una lingua “morta” - quindi apparentemente inutile perché non parlata nell’oralità - insegna a scomporre il pensiero, a riannodare i rapporti non sempre consequenziali di causa-effetto, a riflettere sul peso delle parole e sulle loro conseguenze.
Forse proprio nell’Aleph, nella parola-universale, è racchiuso il significato dell’empatia.
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