L’oro delle tigri
- Autore: Jorge Luis Borges
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2004
Nel 1972 Jorge Luis Borges pubblica L’oro delle tigri, una silloge che include anche alcune pagine di prosa dense di meditazioni, come sempre illuminanti, sulla condizione del singolo e sulla sua collocazione nel gioco universale del destino e della storia. Il libro è pubblicato oggi dalle edizioni Adelphi (2004, pp. 156), a cura di Tommaso Scarano.
L’oro a cui allude il poeta è il colore che resta ancora visibile per lui, avviato verso la totale cecità. L’handicap è vissuto con tragica pacatezza: "Noto con piacere che quasi non vede” scrive di sé, parlando della sentinella, immagine poetica e insonne dell’Io. Ma di ogni cosa e situazione Borges sa costruire metafore, inventare trasmutazioni alchemiche del materiale vivente; tutto per lui è elemento di poesia, compie quel miracolo di fusione vita-arte che pochi realizzano. Scrive nella premessa ai versi:
"Per un vero poeta, ogni momento della vita, ogni fatto, dovrebbe essere poetico, giacché lo è nella sua essenza”.
L’oro è il bene che resta, come resta l’amore:
"Con gli anni mi hanno abbandonato / gli altri incantevoli colori / e ora mi restano soltanto / la vaga luce, l’ombra inestricabile / e l’oro dell’inizio. / O tramonti, o tigri, o splendori / dell’epica e del mito, / o quell’oro più prezioso, i tuoi capelli / che le mie mani anelano”.
Il tono è elegiaco e struggente, a tratti segnato dallo scetticismo, ma l’artista è maestro di splendide contraddizioni. Una delle quali è la preghiera al Signore, presenza misteriosa a cui non fa a meno di rivolgersi, con la devozione di un credente, dunque con speranza:
“Non dalla spada o dalla rossa lancia / difendimi, bensì dalla speranza”.
L’oro può essere paragonato alle scintille di luce spirituale presenti nella materia secondo lo gnosticismo. Borges le evidenzia con la sua impareggiabile maestria e molto spesso è la bellezza a rappresentarle, nel profumo del gelsomino, nella luce discreta della luna. Eppure tutto sembra consegnato all’oblio, ma la memoria è salvata dall’arte e nelle icone dell’eternità, tempo fermato lì dove l’omaggio a John Keats commuove e suscita la nostra partecipazione:
"O successivo / ed impetuoso Keats, che il tempo acceca, / sarà l’alto usignolo e l’urna greca / la tua eternità, o fuggitivo. / Sei stato il fuoco. La memoria panica / di te serba la gloria, non la cenere”.
La “memoria panica” rimanda alla concezione junghiana dell’inconscio collettivo, ma pure all’esoterismo teosofico e di Rudolf Steiner, alla dimensione astrale detta akasha, teorizzata da queste scuole, in cui tutto è conservato. E qui risuona anche la melodia dell’anima del mondo, Platone e le idee sottratte al tempo, non fuggitive.
Il grande argentino non può esimersi dall’enumerazione delle cose, delle persone, siano esse il "gaucho" sconosciuto o il guerriero Tamerlano, che afferma orgogliosamente: “Io sono gli dei. […] Io sono gli astri”, per terminare il suo monologo da conquistatore con una semplice congiunzione che annulla la sua gloria: “eppure…”. Una parola sola, sintetica e lapidaria, che cancella ogni cosa e sottolinea l’impermanenza fisica di ciascuno. Tamerlano è consapevole della sua fine: “Morirò come ogni uomo muore”, perché “il mio regno è di questo mondo”.
È paradigma di tutto il visibile e dell’intero genere umano, di noi.
Il libro è attraversato anche dal Male, o ciò che viene comunemente definito tale, scolpito nei duelli sanguinari e nelle battaglie degli antenati, nel culto e nel rispetto della spada. Il Male è dunque solo male? O il Male è invece esistere, componente indelebile del gioco duale in cui gli opposti complementari generano il movimento? Ancora una volta in modo gnostico, il Male sta nell’esistere, con la sofferenza di non sapere. Non sapere è il tormento metafisico che attanaglia l’autore. Ritornando nella terra degli avi, egli si chiede se essi non siano per lui un incontro perenne, dunque incancellabile. La saggezza sta nel porre quesiti, non nel fornire risposte preconfezionate:
“Chi mi dirà se misteriosamente, / sotto quel tetto di una sola notte, / al di là della polvere e degli anni, / oltre il cristallo della mia memoria / non ci siamo già incontrati e confusi, / io nel sonno, e loro nella morte”.
Le sue domande esplicite e implicite non comportano il pessimismo radicale, mai. Perché Borges è intento ad ascoltare l’incessante musica della vita, metaforizzata dal murmure del mare:
"Quell’incessante mare che nel placido / mattino solca l’infinita sabbia”.
Che ci sia altro, oltre l’apparire, è intuito nell’elogio del gatto:
“Più remoto del Gange e del ponente, / tu sei una solitudine e un segreto. […] È un altro tempo il tuo. Tu sei padrone / di una regione chiusa come un sogno”.
L’oro delle tigri è un libro che incanta e seduce, vertiginoso di quesiti, allusioni a verità suggerite con la poesia.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’oro delle tigri
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