L’ultima conversazione
- Autore: Roberto Bolaño
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2012
Quello che troviamo ne L’ultima conversazione è un Roberto Bolaño a tutto tondo: lo scrittore, morto troppo presto, nel 2003, si racconta in una serie di interviste che presagiscono già la fine di un viaggio - la prima della raccolta è stata realizzata nel 1999, l’ultima pochi mesi prima che se andasse -, hanno il sapore di piccoli testamenti, sono costellate di un’ironia sottile, di un acume inesauribile, di una velata malinconia.
Il Bolaño che risponde, nelle interviste raccolte, è una voce piena di umiltà, uno scrittore che dopo molto girovagare, tanti concorsi letterari tentati e ricorrenti ristrettezze economiche, grazie all’incontro con Jorge Herralde, il fondatore della casa editrice Anagrama di Barcellona, che decide di pubblicare tutta la sua narrativa, e al prestigioso Premio Romulo Gallegos (assegnatogli nel 1999 per "I detective selvaggi"), è già riconosciuto da alcuni come uno dei casi letterari più interessanti degli ultimi anni.
Si definisce "latinoamericano": in questa connotazione geografica potrebbe essere racchiusa tutta la sua storia, personale e letteraria. L’infanzia cilena, l’adolescenza a Città del Messico, dove con Mario Santiago dà vita al movimento dell’Infrarealismo, il ritorno in Cile, poco prima del golpe di Pinochet, la lotta armata in Perù e in Bolivia, fino al trasferimento in Spagna, per questo
In grande misura tutto quello che ho scritto è una lettera d’amore o una lettera d’addio alla mia generazione.
i nati negli anni Cinquanta che scelsero di contrastare i golpe militari appoggiati dalla CIA, i giovani dimenticati, delle cui ossa è disseminata tutta l’America Latina, giovani che, come tanti suoi personaggi scrittori, e come Rimbaud, avevano il progetto di
Rivoluzionare l’arte e cambiare la vita (...). E reinventare l’amore.
Per Bolaño però “leggere è sempre più importante che scrivere”, se nella sua opera caustica scorre il sangue delle giovani generazioni latinoamericane, le interviste qui raccolte svelano le ascendenze letterarie e le preferenze di un lettore insaziabile; pareggiano i conti con i padri e rendono omaggi generosi a voci di ogni parte del mondo.
Una biblioteca è come la metafora di un essere umano o della parte migliore dell’essere umano, così come un campo di concentramento può essere una metafora della parte peggiore.
La parte migliore di Bolaño era pressoché sconfinata. Si muoveva a suo agio nella letteratura latinoamericana, come ci si aspetterebbe, ma anche in quella europea e nella letteratura nordamericana dei decenni immediatamente precedenti a quelli in cui leggeva: è questo cosmopolitismo, secondo Nicola Lagioia, che firma una densa postfazione, che ne fa oggi un fenomeno letterario, probabilmente non ancora completamente compreso; è questo dialogo ininterrotto con i suoi simili che lo rende più familiare e più grande di tanti americani contemporanei – Forster Wallace, come Franzen – che hanno evitato di confrontarsi con ciò che sta oltreoceano.
Lo scrittore traccia genealogie sincere e affascinanti; in un passo in cui parla dell’influenza di Rodolfo Wilcock sul suo "La letteratura nazista in America" subito dopo spiega che quello
"deve (...) moltissimo alla Storia universale dell’infamia di Borges. A sua volta (...) Borges deve molto a (...) Alfonso Reyes (...). Il libro di Alfonso Reyes deve a sua volta molto a Vite immaginarie di Marcel Schwob, che è l’inizio di tutto. Ma [che], a sua volta (...) deve molto alla metodologia degli enciclopedisti e al loro modo di servire certe biografie su un piatto d’argento".
In un viaggio nella sua sconfinata biblioteca immaginaria, Roberto Bolaño trova numi tutelari – Cervantes – e capostipiti – Marquez e Vargas Llosa – a cui volgere uno sguardo ammirato ma distante; padri – Borges – e fratelli maggiori – Cortazar – tanti sodali e compagni di strada, tanti maestri a cui molto deve per i suoi capolavori (Twain e Melville). Ognuno, con le sue parole, gli ha permesso di accarezzare i sogni e i drammi dell’America Latina, di descrivere e indagare – con il piglio del detective che gli sarebbe piaciuto essere se non fosse stato scrittore – l’inferno, "lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e del desiderio", di aggirarsi, come dice Marcela Valdes, in una pregnante introduzione dedicata alla genesi di “2666”, "in un cimitero, guardando i fantasmi".
L'ultima conversazione (SUR)
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