Fino a qualche anno fa quando, durante i primi anni di università, alla domanda "Cosa stai leggendo?" rispondevo "Stefan Zweig", i miei colleghi ribattevano con un semplicissimo: "Conosco molto poco".
Certo, forse non è la classica lettura da mare, magari preferivano un’innocua Ginzburg, oppure optavano per un sicuramente più famoso Dostoevskij, sta di fatto che, se prima Zweig era conosciuto tutt’al più per "Il mondo di ieri", oggi, nel 2014, è stato riscoperto con gran fervore, tanto che Stefano Feltri, in un articolo apparso sulla rivista "Linus", parla di "Zweig-mania".
Ma perché? Forse, dice Feltri, perché quell’inquietante capolavoro che è "Il mondo di ieri", ritraendo un’epoca definitivamente scomparsa, vale a dire quella della "Felix Austria" che tanto condizionò l’intera cultura europea, ci pone di fronte alla scomoda consapevolezza che, proprio a causa del venir meno degli antichi valori, si andrà sempre più incontro ad una crisi non solo sociale, ma, quel che è peggio, umana, dell’individuo, incapace ormai di riacquistare l’identità persa, annegata nell’imponente rassegnazione di fronte all’irreversibilità degli eventi. Non solo quindi un’autobiografia, ma un vero e proprio trattato nostalgicamente terrificante, che rispecchia alla perfezione la crisi attuale: economica, sociale e dei valori individuali.
Questo è certamente vero, ma se pensiamo a testi come "Momenti fatali", "Mendel dei libri", "Gli occhi dell’eterno fratello" o "Notte fantastica", ci rendiamo conto che Zweig non è solo ciò che lui stesso ha sempre voluto evitare, vale a dire un intellettuale che, oltre ad occuparsi di letteratura, fa anche politica.
Stefan Zweig è prima di tutto poeta della realtà: lo straziante romanticismo di cui sono intrise le pagine di "Lettera di una sconosciuta", l’eccitazione febbrile che avvolge il protagonista di "Amok", la puntuale descrizione del terrore che attanaglia Irene Wagner in "Paura", o ancora il disagio alienante che innervosisce Ludwig ne "Il viaggio nel passato", tutto ciò non è solo frutto di fredda maestria di maniera, ma è spontanea esternazione di un vissuto pericolosamente importante.
Ciò che rende Stefan Zweig così vicino a noi, in un’epoca intrappolata in questa gabbia dorata, fatta di apparenze, corse al successo spicciolo e immediato, affannata e limitata proprio da se stessa, è il fatto di aver ritrovato nelle sue pagine quella naturalezza del sentimento e dell’emozione che credevamo aver perso per sempre. Non c’entrano i corsi e ricorsi storici, non c’entra neppure solo il fatto che quel che è stato prima o dopo sarà di nuovo, c’entra piuttosto il sentire comune, lo spirito di una collettività stanca, ossessionata da una tv marcia, intontita da una politica al limite del ridicolo, desiderosa di (ri)scoprire un’umanità giunta alla soglia del baratro.
Dunque, siate buoni con voi stessi, fate come Baudelaire: accogliete le novità dell’era che avanza, non siate restii al progresso, abbiate pietà per la tecnologia e la scienza, ma fatelo con tutto lo spirito critico di cui siete capaci. Non tradite mai voi stessi e non perdetevi mai di vista, perché siete l’unica persona con cui dovrete passare tutto il resto della vostra vita.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La “Zweig-mania” e il ritorno dell’individuo
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