La baracca dei tristi piaceri
- Autore: Helga Schneider
Nazismo, olocausto, campi di concentramento e ogni tipo di sadismo e violenza conseguente sono temi che molti credono di conoscere a memoria. In realtà, spesso si tratta di conoscenza superficiale, acquisita per "sentito dire" o per avere visto qualche più o meno approfondito documentario televisivo. Ben venga, quindi, tutto ciò che può arricchire le informazioni che già possediamo, e, soprattutto, risvegliare ancora una volta la nostra coscienza e il nostro orrore. Soprattutto se, come in questo caso, si affronta un argomento a molti ancora sconosciuto, in quanto la vergogna di chi ne è stato direttamente coinvolto ha contribuito in maniera determinante a farlo passare quasi del tutto sotto silenzio: si parla dei bordelli che furono aperti in diversi campi di concentramento, a uso sia delle SS che dei prigionieri. Giovani prigioniere non ancora abbrutite dalle privazioni e dagli stenti dei lager furono allettate e convinte alla prostituzione da condizioni igieniche ineccepibili, da un piccolo salario e dalla ventilata liberazione dopo pochi mesi di tale "servizio" (promessa che, ovviamente, non fu mantenuta). In realtà, se dal punto di vista igienico e fisico queste donne potevano considerarsi quasi "fortunate", niente avrebbe mai potuto compensare la totale perdita di dignità che un simile "mestiere" comporta e comporterà sempre. Alcune si suicidavano poco dopo il loro arrivo nel bordello, altre si rifugiavano nella dipendenza da fumo e da alcol. Dopo la liberazione, un difficile reinserimento e una vita fatta di incubi e paure.
Helga Schneider ha vissuto da bambina cosiddetta "privilegiata" l’orrore del nazismo e della guerra. Pur non avendo fatto esperienza diretta di ciò che racconta, è quindi una voce più che autorevole e ha certamente pieno titolo di affrontare l’argomento e diffonderlo. In questa ottica deve essere letto questo libro, che ha il grande, importantissimo pregio di squarciare un velo di omertà e vergogna.
D’altra parte, il suo punto debole è lo stile, e soprattutto l’avere scelto la forma del romanzo. E’ probabile che l’intenzione fosse quella di rendere l’argomento più "digeribile" e facile da leggere e assimilare, inserendolo in una storia e usando un linguaggio semplice. Tuttavia, un reportage (magari con indicazione dei vari riferimenti) sarebbe risultato indubbiamente più appropriato. Oppure, se romanzo doveva essere, forse una soluzione migliore sarebbe stata far raccontare la storia di Frau Kiesel da una voce esterna, senza giornaliste, interviste e divagazioni esterne. Invece, la voce narrante è Sveva, la giornalista italiana che a Berlino incontra Frau Kiesel e si fa raccontare la sua storia.
Il racconto è intervallato da "pause tecniche" (per mangiare o altre necessità), esitazioni, cambiamenti di umore, che, se da una parte rendono il tutto più "umano", dall’altra sfibrano e tolgono pagine al racconto vero e proprio. Molto spazio è dato anche al lato personale di Sveva, forse con l’intenzione di creare dei legami con la storia (l’amico omosessuale), legami che, però, rimangono sempre "accennati". Tutto questo, unito alla semplicità della scrittura, dà a volte l’impressione di leggere una storia di vita vissuta su di un giornale rosa. Ci sono scene persino commoventi (la protagonista che tenta di tutto per dimostrare la "guarigione" di un omosessuale e, così, salvarlo), altre agghiaccianti, ma si ha come l’idea di vedere il tutto attraverso un velo.
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