La camera è un racconto del filosofo e scrittore esistenzialista Jean-Paul Sartre, il secondo contenuto nella raccolta Il muro (Einaudi, 2015, trad. E. Giolitti), pubblicata nel 1939, un anno dopo La nausea. Con il grande capolavoro dell’autore, Il muro condivide, come avremo modo di osservare, molteplici tematiche l’inconfondibile stile – denso, riflessivo e a tratti quasi onirico – e la capacità di scavare nei meandri della mente dell’uomo e nei grovigli della sua psiche, facendo emergere spaccati di realtà, così sfaccettata, profonda e completa da essere quasi più nitida della realtà stessa.
Il racconto, nonostante il suo essere essenziale in quanto a personaggi e ambientazioni, riesce a proiettare il lettore in uno sconfinato mondo parallelo, il più vasto che si possa immaginare: quello della mente umana, con le sue variegate sfumature e le sue contraddizioni tumultuose. I personaggi plasmati dall’ingegno di Sartre sono individui veri, esseri umani che prendono forma man mano che vengono delineati i contorni dei loro tormenti e della loro sofferenza, che assumono un’identità man mano che vengono disvelate le loro paure, le loro colpe e le loro disgrazie; lo scrittore non vuole presentarci uomini imbellettati ed eroici, modelli da imitare o grandi avventure da sognare, ma ci porge uno specchio in cui guardare, tramite i volti dei nostri simili, il nostro stesso volto.
La camera: trama
Al centro della narrazione vi è una coppia di coniugi colpita da una sciagura: Pietro, il marito, è afflitto da una malattia degenerativa che gli causa una sorta di demenza e che lo condanna a proferire discorsi che appaiono come deliranti e sconnessi e a subire il doloroso pungolo di visioni e allucinazioni, talvolta serene, talvolta inquietanti e quasi demoniache. Tra queste, la più ricorrente è l’impressione di essere sovrastato da statue in pietra da cui emergono chiazze di vera carne e con ciglia reali intorno agli occhi, le quali si avventano su di lui, ronzando e volando per la stanza.
La moglie Eva si prende cura di Pietro, con una premura ostinata e forse ossessiva, da un lato, e una sorta di timore per l’imprevedibilità delle reazioni del coniuge, dall’altro. I genitori della donna, preoccupati per il suo benessere e per le conseguenze dannose che potrebbero ripercuotersi sulla sua serenità psicologica a causa della convivenza con un malato, vorrebbero convincerla a ricoverare Pietro in una clinica, ma lei, testarda e risoluta, non vuole desistere dal suo impegno e non contempla di abbandonare il marito, col quale vive ancora una sorta di intimità fisica e affettività verbale, grazie alle dolci parole che questo – pur chiamandola con un altro nome e ricordando eventi mai avvenuti della loro vita precedente – le riserva di tanto in tanto.
La vicenda è ambientata quasi interamente in una stanza, quella che dà il titolo al racconto: si tratta della camera dei due coniugi, ormai diventata il regno di Pietro, risultando a lui gradita grazie alla presenza di oggetti di colore nero (neri come gli abiti che lui indossa da quando è piombato nell’infermità), a una costante semi-oscurità, che richiede agli occhi di abituarsi per discernere le forme ricoperte da essa, e a una densa e fumosa atmosfera di incenso profumato, che rende l’ambiente simile a quello di un luogo sacro.
Analisi del racconto
Il tema centrale del racconto, che lo permea dall’inizio alla fine, è la demarcazione labile e sfumata tra sanità e follia: la follia diventa un concetto ambivalente, prospettico e relativo e il racconto lascia con un senso di perplessità su chi sia malato e chi sano, su chi sia sincero con se stesso e chi sia un bugiardo.
Eva, quando vede il marito in preda ai deliri, lo guarda con un timore quasi reverenziale, come se si sentisse inferiore a lui per la sua mancata capacità di vedere ciò che lui vede, di sentire ciò che lui sente. Prova quasi imbarazzo nel dover ammettere a lui di non poterlo capire interamente, di non avere le sue stesse percezioni, e si chiede se forse il suo sentire non sia piatto e superficiale come quello del padre, accompagnando questo scomodo dubbio con una sorta di disprezzo per la banalità della gente comune, sana.
La donna si sente impotente e incapace, ma questi sentimenti sono di duplice interpretazione, dato che potrebbero scaturire dall’impossibilità sia di aiutare il marito, condannato a una malattia che lo fagocita sempre più, sia di essere all’altezza del suo modo di guardare oltre le cose, così misterioso, e per cui la sanità mentale diventa una sorta di preclusione, una porta d’accesso totalmente sbarrata.
Eva infatti, a un certo punto della narrazione, bisbiglia con tono di ammissione, riferendosi al marito: “È come te che vorrei pensare”.
Un altro tema essenziale portato alla luce da questa vicenda e strettamente connesso al primo è quello dell’incomunicabilità: ritorna infatti spesso nelle parole dei personaggi il richiamo del vocabolo “muro”, a indicare l’irremovibile separazione tra un individuo e il suo simile.
Il termine è centrale non solo in questa narrazione, ma nell’intero libro, perché è il titolo del precedente racconto, Il muro, che dà il nome all’intera raccolta, creando una fitta rete di richiami interni.
Ciò che deriva dall’incomunicabilità è un senso di isolamento diffuso, che incatena ogni personaggio: Eva, in un limbo a metà tra sanità e follia, non riesce a sintonizzarsi interamente col pensiero del marito e, anche se prova a liberarsi dai suoi preconcetti da mentalmente sana e comune borghese per attingere a un forma di sapere più nascosto, deve fare i conti col suo senso di sconfitta.
Al contempo, però, si sente ugualmente lontana anche dal modo di pensare dei genitori, così freddo e automatico. Questo concetto è espresso con grande intensità tramite una riflessione della donna, scaturita dalla presa di coscienza che in nessun luogo ci sia posto per lei:
“Gli uomini normali credono ancora ch’io sia dei loro. Ma non potrei restare neppure un’ora in mezzo ad essi. Ho bisogno di vivere là, dall’altra parte di questo muro. Ma là, non sanno che farsene di me”.
L’isolamento intrappola anche Pietro, relegato al suo delirio visionario, che appare però così ricco e sensibile. L’uomo, rivolto alla moglie, asserisce con una triste e stranamente lucida consapevolezza in cui nuovamente l’immagine del muro:
“C’è un muro tra me e te. Io ti vedo, ti parlo, ma tu sei dall’altra parte”
La stessa condizione di alienazione colpisce anche i signori Darbédat, i genitori di Eva, inchiodandoli alle loro credenze da benpensanti: questi vedono Pietro solo come un malato senza speranza ed Eva come una giovane sposa resa sciocca dall’ostinazione e dall’amore. L’incomunicabilità però si scaglia anche tra gli appartenenti allo stesso mondo, tra i sani, infatti il signore e la signora Darbédat non si capiscono più, lei deve usare un’accortezza particolare per parlargli di alcune situazioni più sottili ed è visibilmente infastidita dalla sua limitata cocciutaggine, mentre lui si atteggia in modo paternalistico e pacatamente superiore, come se fosse appesantito dall’onere di dover spiegare agli altri membri della famiglia lo stato dei fatti, che a lui invece appaiono così nitidamente evidenti. Ogni personaggio del racconto è una monade ostinata e caparbia di isolamento, una bolla murata che fluttua sbattendo contro alle altre senza riuscire a entrare in connessione con esse.
Vengono ripresi poi i due temi essenziali de La Nausea: la premura nei confronti degli oggetti, come se fossero senzienti, e l’”essere di troppo”. Per quanto riguarda il primo, è indispensabile segnalarne la rilevanza per la produzione letteraria di Sartre. Infatti lo stato di nausea del più conosciuto romanzo dell’autore era stato innescato proprio dall’osservazione di un ciottolo, dal contatto e dalle percezioni scaturite da esso, dalla consapevolezza che gli oggetti possono commuovere e che a volte sembra quasi che possano sentire. Nel romanzo si può cogliere un’attenzione quasi umanizzante per le cose, in una contemplazione dell’esistenza onnicomprensiva di persone, animali, piante e oggetti, elementi tutti livellati dal comune attributo di “esistenti”.
Anche nel racconto La camera si evince questa particolarità: infatti Pietro sostiene con sdegno che le altre persone agguantino gli oggetti, senza nessuna attenzione o rispetto per essi, e che non sappiano toccarli, ed Eva deve tristemente constatare che forse neppure lei ha questa capacità, perché, quando osserva il marito toccare i pezzi neri in legno della scacchiera, li vede quasi prendere vita sotto il suo tocco, mentre, quando è lei a prenderli in mano, questi non sanno offrire altro che la loro statica apparenza.
Per quanto riguarda il secondo tema, ne La Nausea, Antonio Roquentin – il protagonista – sostiene di essere di troppo rispetto a un mondo che già scoppia di esistenza, che è ricolmo di esistenza fino all’orlo; eppure non può nemmeno togliersi la vita, perché la sua stessa morte sarebbe “di troppo”, così come lo sarebbero il suo sangue e il suo corpo esanime.
Allo stesso modo si sente Eva rispetto a Pietro: “Lui non ha bisogno di me; sono di troppo nella camera”, osserva lei con sconforto, desiderando di potergli stare vicina senza essere vista. Le varie tematiche confluiscono nel medesimo triste esito: in un mondo pieno di elementi ugualmente coesistenti ma non comunicanti tra loro, siamo tutti soli tra la folla, esuli costretti a un grido muto, destinato a non essere udito e compreso.
Il racconto si chiude con un’affermazione molto tagliente, inaspettata e allo stesso modo forse inconsciamente attesa dal lettore, l’unica lapidaria asserzione in grado di chiudere il cerchio delle riflessioni scaturite dalla lettura. Ciò che rimane dopo aver girato la pagina conclusiva del racconto è un senso di confortevole smarrimento e abbattimento dei propri preconcetti, accompagnato da una sorta di pietà anonima e diffusa, che abbraccia sia un malato in preda a sofferenti deliri, sia gli uomini sani nella loro ordinaria limitatezza e insensibilità.
La camera ci ha calati in medias res in uno spaccato di umanità, quel contesto di cui facciamo parte e in cui viviamo, ma a cui riusciamo sempre a sentirci “estranei”, separati da un muro invalicabile, e ci ha permesso di fare un tuffo nell’esistenza, di vedere da fuori quell’abiezione e quella frustrazione che sentiamo “da dentro” nel nostro vivere. Proprio per questo i personaggi afflitti e attanagliati dai loro turbamenti ci sembrano i più eroici, perché lottano a mani nude contro la nostra stessa inquietudine, combattono le nostre stesse battaglie e sono macchiati dalla nostra stessa condanna, quella dell’essere “di troppo” in un mondo affollato da solitaria esistenza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: "La camera": riassunto e analisi del racconto di Jean-Paul Sartre
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