La chimera
- Autore: Sebastiano Vassalli
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Rizzoli
- Anno di pubblicazione: 2014
Zardino era un villaggio che si trovava sotto la montagna “più grande e più imponente di questa parte d’Europa, il Monte Rosa”. Montagna di granito e ghiaccio, “un macigno bianco” secondo la definizione del poeta Dino Campana che l’aveva vista attraverso le inferriate di un carcere. Immagine inafferrabile e lontana... “Una chimera” appunto.
A Zardino, paese padano portato via da un’alluvione del Sesia alla metà del Seicento è rimasta sepolta anche una grande storia, quella di “una ragazza che visse tra il 1509 e il 1610 e che si chiamò Antonia, e delle persone che furono vive insieme a lei, negli anni stessi in cui lei fu viva, e che lei conobbe; di quell’epoca e di questi luoghi”. Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1590 di un gelido inverno, nel giorno di Sant’Antonio abate, mani ignote deposero sul “torno”, cioè sulla grande ruota in legno che si trovava all’ingresso della Casa di Carità di San Michele fuori le mura, a Novara, un neonato di sesso femminile, scuro d’occhi, di pelle e di capelli: “per i gusti dell’epoca quasi un mostro”.
Sfidando il freddo polare di quella notte senza luna il mostro visse, venne battezzato due giorni dopo il suo ritrovamento e si chiamò Antonia Renata Giuditta Spagnolini. Novara “oscura provincia della provincia milanese”, all’epoca della nascita di Antonia, era “forse la più disgraziata in assoluto tra le molte disgraziatissime città che costituivano il regno di Filippo II di Spagna”, una città-fortezza, cinta da mura inespugnabili, ultima roccaforte dell’Impero contro la Francia e gli Stati suoi alleati, nel centro Sud d’Europa. Ciò aveva comportato l’arrivo entro la cerchia delle mura, di avventurieri di ogni razza, sensali, trafficanti e prostitute. Nonostante le prescrizioni del Concilio di Trento (1545-1563), Novara ospitava il clero più gaudente e spensierato d’Europa:
“I canonici più grassi, le monache più mondane e i frati più intriganti”.
In quest’atmosfera di vizio sfrenato, Antonia era cresciuta nell’ospizio retto dalle monache della congregazione di Sant’Orsola, diventando una bambina bellissima dagli occhi e dai capelli nerissimi. Anche a lei come alle altre orfanelle erano stati rasati i capelli e fatto indossare il grembiule di tela verde lungo fino ai piedi, la divisa degli “esposti”. L’evento più importante di quel periodo era stato l’arrivo del nuovo vescovo Carlo Bascapè, nobile per nascita, raffinato per educazione e per cultura, “dotato di un naturale talento di manager”, ostinato nel voler cambiare il mondo partendo da Novara.
L’idea folle di Bascapè, pupillo di Carlo Borromeo, era quella di voler trasformare una diocesi di frontiera “nel centro della rinascita spirituale di tutto il mondo cristiano”. Nel frattempo era cominciato il nuovo secolo, il 1600, l’Anno Santo. Ad aprile in un giorno di mercato, erano giunti a San Michele due contadini dalla “bassa”, la parte piana del contado di Novara, ricca d’acque sorgive e per questa coltivata prevalentemente a riso. Lui si chiamava Bartolo Nidasio da Zardino, basso e tarchiato e con la barba grigia, lei, sua moglie Francesca, aveva un viso rotondo senza età.
“Ti andrebbe bene, se pigliassimo questa?”
In un batter d’occhio, quasi senza accorgersene, Antonia si era ritrovata sopra un carro, rannicchiata tra sacchi di sementi, a guardare il suo piccolo mondo deformato dalle lacrime scomparire.
“Addio Pia Casa! Addio infanzia! Addio mondo conosciuto...”
A dieci anni Antonia avrebbe iniziato una nuova esistenza a Zardino, uno dei tanti borghi della “bassa,” col suo paesaggio di vigneti e di boschi verso le paludi e gli argini del fiume, di prati e di terreni incolti verso Bandriate, di campi di granoturco, di grano e di risaie verso Cameriano e verso Novara. La strada principale di Zardino attraversava tutto il paese fino alla piazzetta della chiesa e su quella strada si affacciavano i cortili e le case. I nativi avevano subito visto la presenza della “stria”, strega Antonia con diffidenza e curiosità, nel villaggio regnava la superstizione (nel “dosso dell’albero” fuori Zardino si diceva che vi andassero le streghe a fare il sabba e ad adorare il diavolo) e la maldicenza. Oscuro presagio di quello che sarebbe accaduto in seguito.
“Maledetta strega! Devi bruciare! A morte! Al rogo!”
Nella Postfazione di "La chimera", romanzo storico-sociale riproposto da Rizzoli a venticinque anni dalla prima uscita per Einaudi, Sebastiano Vassalli, autore genovese, scrive che ha trascorso due anni della sua vita (il 1987 e il 1988) nel XVII Secolo allo scopo di raccontare la tragica vita di Antonia, la strega di Zardino e del vescovo zelante Carlo Bascapè. Per la stesura della trama del volume vincitore del Premio Strega 1990, l’autore ha seguito l’esempio e l’insegnamento di Alessandro Manzoni “che credeva di dover scoprire nel Seicento le radici dell’Italia moderna e del carattere degli italiani”.
Secondo l’autore dei Promessi Sposi due grandi avvenimenti del passato, la Controriforma della Chiesa cattolica e la dominazione spagnola a Milano e a Napoli avevano modificato profondamente “la nostra indole e i nostri costumi, facendoci diventare come eravamo ai suoi tempi e come in parte siamo ancora oggi”.
Il viaggio nel Seicento, “secolo a tinte violente, terribile” di Vassalli passa attraverso la figura straordinaria di Antonia, che va incontro al suo destino determinata nel non volersi piegare alle atroci violenze e alle pressioni dei suoi persecutori.
L’autore con una prosa brillante, ironica e descrittiva, con l’aiuto di personaggi comici e grotteschi rievoca quel Seicento che Manzoni (“il primo a riflettere sul carattere degli italiani”), non raccontò perché scrisse la storia di Renzo e Lucia prima dell’Unità d’Italia. Quindi tornare ai tempi della dominazione spagnola in Italia dopo Manzoni, significava compiere un excursus alle origini del carattere nazionale italico, senza le indulgenze e i correttivi messi in opera da chi, all’inizio dell’Ottocento, doveva parlare di un’entità culturale e politica, di quell’Italia che già esisteva ma che ancora non aveva preso il suo posto nelle cartine geografiche come nazione accanto alle altre europee.
“Avevo messo gli occhi, per il mio romanzo, su una vicenda milanese dei primi anni del Seicento, già raccontata da uno scrittore contemporaneo di Manzoni, Achille Mauri, in una sua opera intitolata Caterina Medici di Bruno. Novella storica del XVII Secolo. Il Mauri mi aveva fatto scoprire una storia che non conoscevo”.
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"L’imputata nelle sue parole e nei suoi atti non aveva dato mai alcun segno di vera contrizione. E quindi doveva consegnarsi al braccio secolare; rimettendosi comunque per ogni decisione al reverendo signor inquisitore. E così tutti in questa sentenza convennero."
In una notte d’inverno del 1590, nel mese di Gennaio, nella Casa di Carità di San Michele fuori le mura "gira il torno". Il torno è una ruota di legno nel quale è possibile depositare i neonati che non possono essere accuditi dai genitori naturali.
Suor Giuditta, nel cuore della notte, si sveglia a causa del pianto lungo e straziante di una neonata, brutta come un mostro e alla quale viene dato il nome di Antonia( ritrovata nel giorno di Sant’Antonio Abate), Renata( perché è rinata quel giorno) Giuditta( il nome della conversa che le ha salvato la vita)e di cognome Spagnolini perché, in questo periodo ,sono per lo più gli spagnoli a muoversi nelle terre piemontesi e a"ingallare" le giovani e belle donne del posto.
Gli anni, nel convento, trascorrono tutti uguali nell’educazione rigida e nelle regole ferree che le suore impartiscono alle novizie. Antonia cresce sana e rubiconda, assume un aspetto fiero e altero insieme alla sua disarmante bellezza e al suo grande acume.
Le esposte (le trovatelle educate nel convento) ogni tanto vengono prese in moglie da vecchi o uomini "scapoli" (celibi) che una volta ingallate le riportano indietro e poi o svolgono i lavori più umili o si danno alla fuga per andare a vivere e trovare protezione nelle case d’appuntamento. Questo è il caso di Rosalina, la prima amica di Antonia , che le spiega quanto sia bello essere avvolte dal"piacere maschile" senza vivere da schiave pulendo e rassettando tutto il giorno la casa.
Le esposte fanno a gara per essere notate da un forestiero e per uscire da quelle mura. Antonia, a causa della sua avvenenza, non ha speranza di essere adottata, fino a quando non arriva la signora Francesca (detta la culona) insieme al marito Bartolo che la portano con loro a Zardino.
In paese, Antonia più che amata ma è odiata perché è un po’ scostante con i giovanotti pretenziosi e anche perché non dà confidenza a nessuno. Si comincia a vociferare che sia una strega che gira per il paese solo di notte e che s’impegna e corrompe altre fanciulle facendo i sabba (riti malefici).
In realtà, la bontà di Antonia è tutta rivolta verso un giovane stolto del borgo di Zardino (stultus Biasus) al quale insegna a leggere e scrivere e che in seguito farà grandi pazzie d’amore per lei.
La notte, Antonia esce di casa di nascosto per incontrare Gasparo Bosi, un camminante, che la soggioga con le sue moine e le sue promesse d’amore.
La chimera è un libro che ci apre gli occhi sia riguardo al quadro storico dei tribunali d’inquisizione e sia riguardo alla realtà della pianura biellese: le sue risaie, i camminanti che vendono e contrattano il lavoro dei risaroli, la corruzione della Chiesa e lo strenuo tentativo del vescovo Bascapé nel cercare di risanarla.