La città ai confini del cielo
- Autore: Elif Shafak
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Rizzoli
- Anno di pubblicazione: 2014
“Un ragazzo di nome Jahan aveva appena finito dodici anni della sua vita quando vide Istanbul per la prima volta. […] La città, ormai chiaramente definita, si apriva davanti a lui, splendente. Luce e ombre, vette e declivi. Su e giù, una collina dopo l’altra, coperte qua e là da boschetti di cipressi, sembrava un grumo di contrari. Negandosi a ogni passo, cambiando forma in ogni quartiere, affettuosa e spietata allo stesso tempo, Istanbul dava con generosità e con lo stesso respiro si riprendeva il dono. Era affascinante”.
1530 circa, Jahan “occhi di giacinto” era un ragazzo indiano giunto a Istanbul al seguito dell’elefante bianco Chota (piccolo) ”il suo unico amico” dono dello Scià dell’Hindustan al sultano Suleiman. Il ragazzo, sveglio e intelligente, non sapeva leggere
“le lettere non erano sue amiche, ma le forme e i disegni sì, ovunque potesse farlo, disegnava”.
Durante il viaggio Jahan aveva ritratto i marinai e la nave sulla quale viaggiava con abilità e destrezza e giunto finalmente a destinazione aveva appreso di essere il mahout (conduttore di elefanti), che doveva accudire e seguire Chota per tutti i suoi bisogni. L’animale sarebbe vissuto nel serraglio del Palazzo Imperiale insieme a tigri, leoni, gazzelle e giraffe. Durante il tragitto che conduceva Jahan alla dimora del Sultano, la città formata da sette colline faceva sfoggio della sua sbalorditiva bellezza e originalità.
“Jahan scoprì che la città aveva ventiquattro porte ed era composta da tre città: Istanbul, Galata, Scutari”.
Gli abitanti, ebrei, musulmani, cristiani ed europei formavano un caleidoscopio “notò che la gente era vestita di colori diversi, anche se non riuscì a indovinare in base a quali regole” di razze, colori e lingue differenti. Jahan aveva assistito alla nascita di Chota e fin da subito tra l’esotico e raro animale e il ragazzo si era stabilito un legame molto saldo, destinato a durare nel tempo. Chota sarebbe rimasto sempre leale e fedele a Jahan.
Un giorno nel serraglio Jahan aveva incontrato Mihrimah, figlia del sultano, curiosa di vedere l’elefante, il giovane aveva notato “le minuscole lentiggini sulle guance, color della calendula e i capelli ondulati” e pur non essendo consapevole si era innamorato subito della bella giovane sentendo “nel petto un sussulto che non aveva mai provato”.
Ma l’incontro del destino, il ragazzo l’avrebbe fatto con l’architetto turco di origine albanese Sinan (1489 -1588), dallo stile sobrio, che lavorò per diversi sultani e costruì tutti gli edifici più importanti (oltre 300 tra moschee, palazzi, hamam, ponti e acquedotti) dell’Impero Ottomano. Il Capo architetto reale Sinan rimase colpito dalla curiosità e prontezza di Jahan, lo fece studiare tanto che “perso tra i libri, trovò se stesso”, fino a farlo diventare uno dei suoi apprendisti. Tra le varie cose l’uomo insegnò a Jahan che
“l’architettura è uno specchio che riflette l’armonia invisibile e l’equilibrio presenti nell’universo, se non custodisci queste cose nel tuo cuore, non puoi costruire”.
Mentre Jahan cercava di trovare la sua strada nel mondo, l’amore per Mihrimah lo accompagnava “non poteva farne a meno” pur nella consapevolezza che il suo sentimento non avrebbe avuto futuro.
In questa narrazione un posto di prestigio lo occupa la cosmopolita Istanbul, mosaico disordinato e colorito di civiltà e costumi, che grazie alla sua posizione geografica, divisa dal Bosforo, si estende sia in Europa (Tracia) che in Asia (Anatolia) risultando l’unica metropoli al mondo appartenente a due continenti. Finestra d’Europa sull’Oriente eternamente sospesa tra due sponde, incanta con le sue luci e i suoi profumi forti e speziati.
Elif Shafak, nata a Strasburgo da genitori turchi, scrittrice di grande finezza e sensibilità, attenta e partecipe alle cause politiche e sociali, è la più letta della Turchia. Per La bastarda di Istanbul fu accusata di “attacco all’identità turca” per aver trattato il tema del genocidio curdo.
La sensibile e raffinata scrittrice, sempre attenta alla cultura e alle tradizioni del suo Paese, ne La città ai confini del cielo (Rizzoli, 2014), ricostruisce perfettamente l’epoca dell’Impero di Solimano il Magnifico (1594-1566), il quale portò l’Impero ai suoi massimi fulgori.
“Non so se gli scrittori scelgano i loro argomenti o se siano gli argomenti in qualche modo a trovarli. A me è successa la seconda cosa con The Architect’s Apprentice”.
Come rivela l’autrice, l’idea del romanzo è nata da un’illustrazione che aveva attratto la sua attenzione:
“Era un dipinto che ritraeva il sultano Suleyman, alto e snello nel suo caftano. Ma furono le figure sullo sfondo ad affascinarmi. C’erano un elefante e un mahout davanti alla moschea Suleymaniye; si trovavano sul bordo del quadro, come pronte a fuggire, senza ben sapere che cosa ci facessero nella stessa cornice con il sultano e il monumento a lui dedicato. La storia mi aveva trovato”.
La città ai confini del cielo
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