La civetta cieca
- Autore: Sadeq Hedayat
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Carbonio editore
- Anno di pubblicazione: 2020
Nella visione del miniaturista appaiono un vecchio simile a un fachiro indiano ai piedi di un cipresso. Una ragazza bruna in abito nero che si inchina e gli offre un fiore di calistregia. Un basso corso d’acqua che li separa.
Nel sogno del miniaturista si rivelano un vecchio fachiro indiano accovacciato ai piedi di un cipresso. Una ragazza vestita di nero gli offre un fiore di calistregia, un pigro corso d’acqua separa le due figure.
Attraverso il velo di una febbre indotta dagli oppiacei, il miniaturista vede un vecchio indiano sotto un cipresso e una bella ragazza dal lungo abito nero china davanti a lui che fa il gesto di porgergli un fiore di calistregia…
La civetta cieca di Sadeq Hedayat (Carbonio, 2020, traduzione di Anna Vanzan) è un’ ipnagogia ininterrotta: una trafila incessante di eterni ritorni, un loop stregato e ipnotizzante, il reiterarsi degente di esperienze lisergiche. Cicli di vite sono declinate attraverso attori e stati similari:
- il vecchio indiano uno e molteplice che infine si profonde in una risata malefica;
- la sensuale danzatrice, emblema insieme di donna-angelo e donna-demone;
- l’io-narrante - il miniaturista di portapenne -, sgomento di se stesso, dei propri incubi-deliri-visioni, della ragazza che gli ha rubato la ragione, dal senso di un’ennesima vita che gli sfugge per l’ennesima volta.
Persino scontato chiamare in causa i labirinti criptico-esistenziali di Kafka e di Poe. Il persiano Sadeq Hedayat frequenta gli stessi gironi infernali e li espande all’ennesima potenza: non c’è convenzionalità narrativa ne La civetta cieca, non c’è linearità se non quella dettata dal precipitare da incubo a incubo, da onirismo a onirismo, da morte a morte, in un continuo collidere e coincidere di eros/thanatos, realtà/dispercezione.
Lo scrittore Sadeq Hedayat è morto suicida a nemmeno cinquant’anni (1903-1951) e La civetta cieca è forse il romanzo che meglio ne dichiara la deriva e la poetica. Sulla prima c’è poco da dire, se non provare a interpretarla come sintomo dicotomico di impotenza e di lettura teleologica senza infingimenti. Sulla seconda, si esprime a ragion veduta Anna Vanzan, che cura e traduce ottimamente questa edizione del libro:
“Il lettore si prepari ad affrontare un testo complesso, in cui lo scrittore e protagonista – la civetta, appunto, simbolo di sfortuna nella tradizione persiana – lo trascina in un mondo di visioni e illusioni cupe, dove la linea di demarcazione tra vita reale e sogni – o, meglio, incubi – s’appanna, rendendo il filo temporale degli eventi offuscato e superfluo. Non è solo un maelstrom quello in cui Sadeq Hedayat ci fa precipitare, non è solo una spirale in caduta verticale verso gli abissi: qui si entra da subito in uno stato ipnotico e le numerose ripetizioni, i diversi personaggi che condividono talmente tante caratteristiche da sovrapporsi l’uno all’altro, servono ad accentuare la sensazione di vivere un delirio, quello di cui lo stesso autore è vittima”.
A lungo osteggiata dal regime iraniano per i suoi contenuti erotici e antireligiosi, La civetta cieca rappresenta dunque di fatto una delle letture più insolite, stratificate e raffinate che vi possa capitare di fare. Un’insistita variazione sul tema della Morte, attraverso l’utilizzo di simboli folklorici, goticismi, retaggi di tradizioni e superstizioni popolari, che lo deputano a capolavoro della letteratura mondiale. Un libro a-dimensionale dove il simbolismo della cultura orientale incontra l’esistenzialismo filosofico, in un affresco rarefatto ma di potente bellezza.
Come Gregor Samsa di La metamorfosi o lo scrivano Bartleby del romanzo omonimo, il miniaturista di La civetta cieca è un archetipo narrativo di difficile rimozione. La sua familiarità con l’assurdo, il suo rapportarsi incurante con la vita, il percepirsi estraneo al sentire comune e l’insensatezza con cui percepisce il passare dei giorni si pongono come indizi del male di essere che lo aliena dalla normalità, forzandolo all’immobilismo o a un errare allucinato per ritornare sempre al luogo di partenza: la sua stanza-prigione, il suo sogno/visione (il fachiro, la danzatrice, il cipresso, il fiume), espressione di un degenerare fisico e mentale, o per paradosso di uno sguardo capace di vedere oltre.
La civetta cieca
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