La famiglia di Pascual Duarte
- Autore: Camilo José Cela
Camilo José Cela nacque in Galizia nel 1916, morì a Madrid nel 2002. Aveva combattuto nella Guerra civile spagnola a fianco dei nazionalisti, e una volta tornato alla vita civile si era dedicato al giornalismo e a diversi lavori impiegatizi. Membro dell’Accademia Reale Spagnola, entrò nel Guinness dei primati per la quantità di onorificenze ricevute.
Nella sua carriera letteraria, Cela sperimentò diversi stili di scrittura, aderendo a differenti correnti letterarie (dall’esistenzialismo all’espressionismo, dal realismo al surrealismo fantastico), sempre all’insegna di una coraggiosa ricerca sperimentale, in grado di affrontare le tematiche più complesse: superstizione, magia, erotismo, malattie mentali, rivendicazioni sociali, povertà, fanatismo religioso.
Nel 1942 il suo romanzo La famiglia di Pascal Duarte conobbe un notevole successo di pubblico, meritando anche una considerevole attenzione da parte della critica. Oggi viene riproposto dalla giovane casa editrice milanese Utopia, nella traduzione di Salvatore Battaglia, con una realizzazione grafica raffinata e accattivante.
La narrazione è preceduta da una Nota, in cui un anonimo trascrittore afferma di aver trovato un fascicolo di fogli scomposti abbandonato in una farmacia di Almendralejo, e di essersi limitato a ricomporne e poi a copiarne le pagine squadernate, censurando i particolari più crudi. L’autore del diario e protagonista del racconto (assunto a esempio da non seguire) si firmava col nome di Pascal Duarte, e aveva vergato le sue memorie mentre era recluso nel Carcere di Badajoz per aver aderito impulsivamente al “troppo male” insegnatogli dalla vita.
Pascual Duarte accusava il destino cieco e maligno di essere responsabile del baratro morale in cui era sprofondato, in parte assolvendosi dai delitti commessi:
“Io, signore, non sono cattivo, sebbene non mi manchino le ragioni per esserlo. Tutti i mortali si nasce di una stessa pelle e tuttavia, mentre andiamo crescendo, il destino si compiace di modellarci variamente come se fossimo di cera e ci obbliga per diverse vie alla stessa meta: la morte. Ci sono uomini ai quali si ordina di camminare sulla via dei fiori e uomini a cui s’impone di trascinarsi per la via dei cardi e dei rovi”.
Nato cinquantacinque anni prima in un “villaggio caldo e soleggiato, assai ricco di ulivi e di maiali”, Pascal viveva con i genitori e i fratelli, e in seguito con le due mogli, in una casupola sporca e maleodorante: lavorava saltuariamente, andava a caccia, pescava anguille. Abituato dall’infanzia a un’esistenza rozza, priva di affetti e ambizioni, il suo cuore si era indurito sull’esempio di quello dei genitori: la madre ubriacona e manesca, il padre delinquente e violento.
Gli episodi dei suoi primi anni di vita (elencati saltando “dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio come una cavalletta inseguita”), vengono raccontati con pacata e fatalistica accettazione, anche quando si manifestano in tutta la loro odiosa brutalità. La nascita inattesa della sorella Rosario, cresciuta ribelle e ladruncola, quella di un fratello menomato, la fine grottesca e crudele del padre, il matrimonio tormentato con la prima moglie Lola, i figli abortiti o morti in culla: tutto concorre a creare il Pascal un senso di frustrazione misto a rancore e rabbia, che tende a sfogare con furia cieca su persone e animali innocenti:
“Chissà che non fosse scritto nella divina memoria che la sventura doveva essere il mio unico cammino, la sola traccia lungo la quale dovevano trascorrere i miei tristi giorni!”, “Le più grandi tragedie degli uomini sembrano giungere come all’insaputa, con il loro passo di lupo guardingo, per coglierci con il loro morso subitaneo e preciso come quello dello scorpione”.
Travolto da un crescendo di umiliazioni e di tragedie familiari, Pascal Duarte si arrende al fato avverso, concorrendo volontariamente alla propria rovina: da uomo mite e sfortunato (“un mansueto agnello, atterrito e aizzato dalla vita”, lo aveva definito il cappellano del carcere), si trasforma in rabbioso assassino, cercando nella vendetta una rivalsa sulle ingiustizie e angherie subite.
Il contrasto tra le azioni efferate del protagonista e il tono composto, rassegnato, addirittura garbato con cui vengono descritte costituisce la cifra narrativa più originale nel romanzo.
Camilo José Cela tratteggia la dolente umanità dei suoi personaggi con indulgente e solidale comprensione, come ha giustamente sottolineato la motivazione del premio Nobel attribuitogli nel 1989, lodando la sua "prosa ricca ed intensa, che con la pietà trattenuta forma una visione mutevole della vulnerabilità dell’uomo".
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